Sembra un paradosso: Israele è la nazione più felice della terra. Un popolo minacciato nella sua stessa esistenza, costretto a vivere in una condizione di guerra permanente, riesce a mantenere un invidiabile grado di serenità. Lo dicono una serie di parametri statistici riportati da Spengler editorialista di punta di Asia Times. Confrontando il tasso di fertilità e quello dei suicidi Israele è in cima alla classifica dei paesi amanti della vita davanti a ben 35 nazioni industrializzate. È uno degli stati più ricchi, liberi e istruiti del mondo: con molte ore dedicate alla religione e primeggiando nelle discipline scientifiche. E la durata media della vita è più alta che in Germania e Olanda. Un quadro sorprendente se si considera che gli israeliani sono circondati da vicini pronti a uccidersi pur di distruggerli.
Una condizione che non può essere attribuita alle esperienze storiche. Nessun popolo ha sofferto più degli ebrei e avrebbe giustificazione migliore per lamentarsi. Chi crede nell’elezione divina di Israele vede in tutto ciò una speciale grazia di Dio. Secondo Spengler gli ebrei incarnano “l’idea di una vita fondata su un Patto che procede ininterrotta attraverso le generazioni”. Certamente il caso di Israele ci interroga. Rappresenta qualcosa di unico davanti a società europee invecchiate, e non solo in senso demografico. Società dove sono stati “resi eretici l’amore e il buonumore”, come disse nel 1974 l’allora professor Joseph Ratzinger. Nella stessa occasione il futuro Benedetto XVI si chiedeva “se la vita sia un dono sensato che si può fiduciosamente continuare a dare, anche se non richiesti, o se essa non sia veramente un peso insopportabile tanto che sarebbe meglio non essere nati”. E concludeva che “il primo compito che è importante oggi per l’uomo consapevole della propria responsabilità deve essere quello di risvegliare la ragione assopita”.
Interpretare la felicità di Israele come un dato sociologico sarebbe assai limitativo. In realtà è una provocazione che riguarda tutti. Ha a che fare col senso e la prospettiva che diamo alle nostre azioni e passioni. A patto di non aver già liquidato il problema della felicità come una questione da illusi sognatori. Non è un caso che i padri della costituzione americana, più di due secoli fa, abbiano inserito fra i principi fondamentali della nazione che stava sorgendo il diritto alla ricerca della felicità. Evidentemente si tratta di un punto che fa la differenza non solo per la vita dei singoli, ma per l’intera società. Tale ricerca deve partire da una positività riconosciuta, o almeno intuita, nella realtà in cui si vive. Questo richiede la capacità di saper guardare al di là delle apparenze, cosa che nell’immediato può anche comportare un sacrificio dentro però una prospettiva in cui si costruisce e si realizza la persona. E oggi, soprattutto ai giovani, non fa tanto paura il sacrificio, ma piuttosto il fatto che questo possa non avere un senso. Tutto ciò non è né automatico né scontato, ma frutto di un’educazione in grado di appassionare alla conoscenza della realtà partendo da fatti che muovano interesse e affettività. Fatti, non opinioni. Quindi occorre solo una grande lealtà. L’uomo per sua natura cerca qualcosa o qualcuno a cui appigliarsi e che prenda sul serio la sua esigenza costitutiva di felicità. Non c’è alcuna marcia inarrestabile verso il progresso a cui affidare le nostre speranze come, con una buona dose di dogmatismo ideologico, qualcuno ogni tanto vorrebbe farci credere. In questo senso la recente bufera finanziaria ancor prima che per il tracollo economico è motivo di smarrimento perché ormai concepiamo la ricchezza come unica certezza possibile mentre essa da sola oggettivamente non può dare senso e sostanza all’esistenza. Oggi è il momento di un amaro risveglio, ma può essere anche l’occasione per un ritorno a un sano realismo.