L’intervista al cardinal Martino, pubblicata su questo giornale, ha avuto un’eco assai vasta e potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Va detto, però, che l’ormai famigerato paragone di Gaza con un campo di concentramento era solo una minima frazione di tutto l’intervento e che il prelato aveva condannato senza mezzi termini anche l’intolleranza islamica. È altrettanto vero che il giudizio che sembra prevalere, in campo cattolico, è quello di una condanna di entrambe le parti con una particolare acrimonia nei confronti di Israele. Che i cristiani palestinesi abbiano ottimi motivi per dolersi della politica del governo di Gerusalemme in questi cinquant’anni è indubbio: troppe volte vi sono stati abusi e soprusi, con espropriazioni e inganni e il rancore può essere profondo. Varrebbe la pena, allora, dire le cose come stanno, ricordare a Israele il rispetto di determinati princìpi, ma senza ricorrere a una retorica disorientante come quella del “campo di concentramento” o del “Ghetto di Varsavia= Gaza”, come si è visto su alcuni cartelli di manifestanti. Chi ha anche solo una minima cognizione di cosa furono questi luoghi non può non rabbrividire di fronte a un simile paragone.
Eppure, da parte cattolica, si sono usati toni anche più forti, come ha fatto Riccardo Moro sull’agenzia SIR: «Se la Livni vuole la pace dimostri di cercarla davvero senza violenza, con un dialogo regionale e con gesti inequivocabili, come l’interruzione del Muro» perché «la pace si fonda sul coraggio, non sul taglione». Ora, Tzipi Livini e Ehud Barak avranno molti difetti, ma è troppo facile discettare su una loro mancanza di coraggio dal calduccio delle nostre poltrone. .
Nessuno, di tanti critici, è riuscito a ipotizzare di trovarsi per mesi e mesi sotto il tiro dei missili Qassam. Non risultano pervenute tante indignazioni nemmeno quando i sanguinari terroristi di Hamas trucidarono nei modi più orrendi centinaia di esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese nel maggio del 2007, ed è interessante notare come i musulmani che combattono e muoiono nella lotta contro il terrorismo vengano totalmente ignorati dall’Occidente. I talebani possono apparire, per qualche intellettuale, un’opzione culturale interessante ma nessuno ricorda più ormai, l’eroico comandante Massud, assassinato il 9 settembre 2001. Sarà spiacevole da notare ma, di solito, c’è un’opzione preferenziale per gli estremisti: involontaria, forse, ma non meno evidente.
Certamente, è vero che la Chiesa deve essere prudente e deve tenere conto delle comunità cristiane in Oriente, ormai in via di estinzione, proprio come bisogna cercare sempre di salvare la vita degli ostaggi: ma ci sarà pure un modo per intervenire in modo autorevole ogni qual volta vi sia pericolo di guerra e non aspettare che siano gli israeliani a bombardare per “condannare ogni violenza”.
Per far questo la Chiesa cattolica e i suoi esponenti, religiosi e laici dovrebbero anzitutto tornare a “pensare” la guerra, invece che chiudere gli occhi di fronte ad essa. Si prenda, ad esempio, il problema terribile delle vittime civili. Nella guerra moderna si è sempre sostenuto che, in una casa occupata dal nemico è meglio mandarci dentro un missile che un soldato. Un ragionamento cinico e spietato ma che, oggi, è anche controproducente in quanto donne e bambini uccisi sono usati per la propaganda. La soluzione è semplice: bisogna tornare a mandar dentro quella casa dei soldati bene addestrati che sappiano risparmiare i civili. Ciò, naturalmente, al prezzo di perdite crescenti fra i militari, cosa che, attualmente, non siamo disposti ad accettare, oltre al problema di coscienza per cui, in quella casa occupata dal nemico, non andranno certo il cardinale Martino, né il professor Moro né tantomeno il sottoscritto.
In effetti è molto più utile “pensare la pace”, nel senso che iniziative autorevoli, magari non da parte di porporati, ma di laici, più liberi di agire, potrebbero almeno tentare di prevenire i conflitti. Utopia? Certamente no, se solo si pensi all’opera straordinaria della Comunità di Sant’Egidio che è riuscita, addirittura, a porre le premesse di un dialogo per far cessare la guerra civile in Algeria, mediando fra musulmani. Non sempre tale iniziative hanno avuto pieno successo ma la fine della guerra in Mozambico nel 1991 è stata un capolavoro di diplomazia e vi sono stati numerosi interventi in Africa e nei Balcani, analizzando le situazioni di conflitto, intervenendo prima che le parti ricorrano alle armi, da protagonisti disarmati quanto competenti di processi di pace impensabili: in confronto a ciò, ricordare, come fa il cardinale Martino, la pace fra Argentina e Cile di trent’anni fa, permessa dalla diplomazia vaticana (una pace fra paesi e governi cattolici) immalinconisce più che esaltare.
“Pensare” la pace aiuta anche a capire come, quando e perché possa apparire inevitabile il ricorso alla guerra: un evento che il vigente catechismo accetta come extrema ratio, ma che non nega a priori, come fa un odierno irenismo privo di concretezza. Il problema è che non c’è molto tempo a disposizione: se vi fosse una grande guerra regionale in Medio Oriente, in un teatro bellico che si estendesse dal Mediterraneo, attraverso Irak, Iran e Afghanistan, sino al Pakistan e all’India, quale autorevolezza, potrebbe avere un intervento diplomatico della Chiesa cattolica? È questa la domanda alla quale è urgente trovare una risposta che non miri principalmente a salvare le nostre coscienze ma il mondo intero.