Se per giudicare la forza e il carisma di un presidente bastasse contare quanti americani invaderanno martedì Washington per assistere all’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama, allora non ci sarebbero dubbi. Ci saranno, si stima, 3 milioni di persone, un record: quindi la presidenza del primo afroamericano, 44esimo presidente Usa, sarà un successo. Persino di dimensioni planetarie se aggiungiamo l’entusiasmo e la trepidazione con cui nelle cancellerie mondiali e nelle piazze europee, la gente attende l’evento.



C’è ovviamente uno iato fra attesa e realtà, fra il possibile e il reale. Non è colpa di Obama, né suo demerito. Il fatto è che il giovane leader Usa si trova ad entrare al 1600 di Pennsylvania Avenue in un momento delicato. Critico o drammatico se preferite. E da qualunque prospettiva lo si guardi. Fronte interno, leggi disoccupazione al 7,2%, deficit che supererà i mille miliardi, Borsa in calo, mercato immobiliare fermo, aumento dei sussidi di povertà. O fronte esterno: guerra a Gaza, tensione India-Pakistan, senza contare gli umori sempre ballerini degli ayatollah iraniani e i rapporti non facili con la Russia.



I media Usa ricordano ogni giorno che l’attuale crisi finanziaria è la peggiore dai tempi della Grande Depressione. Obama ha fatto campagna elettorale per 22 mesi promettendo di tagliare le tasse ai cittadini meno abbienti e di caricare i costi della crescita su una maggiore tassazione per quell’1% di americani che negli otto anni di Bush ha goduto di favori fiscali incredibili.

Questa promessa insieme a quella – politicamente e culturalmente più importante – di riconsegnare “keynesianamente” allo Stato federale le chiavi della crescita e il portafoglio dell’economia Usa, sono stati al centro sia della campagna elettorale per le primarie sia dello sprint con McCain.



Accusare di statalismo un americano è singolare. E fuori bersaglio. Obama certamente non è da intendersi tale, almeno secondo i canoni europei. Ma anche negli ultimi giorni il presidente eletto ha ribadito che il ruolo del governo sarà centrale non solo per tirare fuori l’America dalle secche ma anche – ed è questo che spaventa repubblicani e non pochi legislatori democratici – per plasmare quasi ex novo alcuni programmi federali: su tutti educazione, sanità, budget.

Obama insomma vuole approfittare della congiuntura per “rivoluzionare” l’America. Non è un’accusa che gli muovono i rivali (o i compagni di partito più scettici). È lui stesso che sostiene questo programma. Obama ritiene la crisi un’opportunità per cambiare non solo abito, ma persino guardaroba.

Per portare a termine il suo programma l’ex senatore dell’Illinois ha costruito una squadra di consiglieri e di consulenti che lo seguirà passo per passo dalla Casa Bianca. Gli analisti hanno evidenziato che le scelte finora compiute dal presidente eletto denotano la volontà di svuotare o quantomeno ridimensionare il ruolo del Gabinetto e tenere più prerogative e competenze per sé e il pool di consulenti di cui si è circondato. Obama ha creato nuovi uffici e figure di riferimento dipendenti da lui per quanto riguarda la sanità, l’ambiente, l’economia, l’istruzione oltre che – come tradizione – la politica di sicurezza ed estera.

L’interrogativo è se i vari ministri riusciranno a incidere e ad avere voce in capitolo oppure se si scontreranno con i vari consiglieri di Obama.

La priorità della nuova Amministrazione è chiaramente l’economia. Obama preme da settimane per il varo di un pacchetto di stimoli per l’economia (per un valore attorno agli 800 miliardi di dollari). Il Congresso frena. Non tanto perché sia contrario, ma per la fretta che Obama ha messo. Il presidente vorrebbe firmare subito il provvedimento. Più probabile si arriverà almeno a metà febbraio. Comunque sarà il primo segnale della direzione neokeynesiana della sua Amministrazione.

Attivissimo sul fronte economico, parco di parole, proclami e direttive invece sulla politica estera. Solo nel weekend il presidente eletto ha aperto per la prima volta l’agenda: parlando di Iran, Guantanamo, torture e Medio Oriente. Solo qualche indicazione, pur significativa. Anche se tutto resta da verificare. Su Guantanamo ad esempio, Obama si è rimangiato la promessa di chiuderlo subito. Perché quella è irrealizzabile vista la complessità della materia: dove mandare i terroristi arrestati? Come processare gli altri? Nodi legali complessi. Scioglierli non sarà facile, ma soprattutto richiederà tempi lunghi.

Obama ha promesso che già il 20 gennaio penserà a Gaza, al conflitto decennale israelo-palestinese e che il suo team ha delle idee, una dottrina nuova imperniata sul dialogo con le parti in lotta, compresa quell’Hamas “rinnegata” da Bush. Una mossa che non ammette vie di mezze: o fallimento o successo. Comunque azzardata.

Il vero banco di prova però è l’Iran. Obama ha detto che l’Iran rappresenta una minaccia per la sicurezza regionale e per gli Usa. Sa che l’America non potrà lasciar a Teheran l’arma nucleare. Nel secondo mandato Bush ha allentato le resistenze dei falchi della sua Amministrazione e ha avviato un “mezzo” dialogo seppur all’interno del gruppo di contatto dei 5+1 (Germania, Regno Unito, Francia, Russia e Cina) con l’Iran. Nel maggio del 2006 ha lanciato anche la proposta di concessioni economiche importanti pur di veder Teheran di rinunciare ad arricchire l’uranio. Il regime ha sempre replicato picche continuando a processare uranio e a montare centrifughe nei suoi impianti nucleari.

Quanto sia vicino alla realizzazione della bomba atomica non è dato saperlo e le fonti d’intelligence non sono concordi. Ma l’Occidente e l’America verso Teheran ha mostrato disponibilità notevoli, ben oltre quelle mostrate nel 2002-2003 nei confronti di Saddam Hussein. (Anche se le due vicende, sottolineiamo, hanno pochissimi punti di contatto).

Obama dovrà essere anche fantasioso. Parlare di dialogo o di relazioni con la Repubblica islamica è facile; più difficile gettare le basi per parlarsi. A che livello? Chi porterà onere e onori del faccia a faccia con Teheran? Il segretario di Stato? Qualche feluca della diplomazia più probabile. Ma Usa e Iran hanno dialogato a livelli bassi e medi anche durante la guerra in Afghanistan e nel post guerra irachena. Il nodo è: possiamo dialogare sul nucleare? Oppure l’Amministrazione Obama sceglierà per una sorta di coesistenza pacifica aumentando la deterrenza?

Questioni specifiche, decisioni da assumere. Che vanno bel oltre le promesse e i sogni della campagna elettorale.