Ministro degli Esteri ai tempi dell’invasione del Kuwait e della prima guerra in Iraq, Gianni De Michelis è stato figura di spicco di quello che, magari impropriamente, è stato più volte definito il partito “filoarabo” che ha spesso guidato la politica estera italiana nella Prima Repubblica. Ora, invece, addita senza mezzi termini le responsabilità di Hamas come prioritarie nella attuale situazione di crisi in Medio Oriente.
De Michelis, partiamo innanzitutto dalle prospettive più concrete per una soluzione della crisi, cioè quelle legate alla diplomazia egiziana. Come valuta l’azione dell’Egitto?
Certamente la chiave di una possibile base per una tregua è nelle mani dell’Egitto, dal momento che il punto centrale da chiarire è come esercitare un controllo serio sul confine Sud della Striscia di Gaza. L’Egitto è dunque parte in causa direttamente coinvolta, e nella misura in cui riesca a proporre una soluzione che vada bene per israeliani e palestinesi allora ci sarà la possibilità di un successo del piano di pace. Allo stato attuale, però, non è dato di capire bene in quale misura l’Egitto sia disponibile a farsi carico fino in fondo dell’onere di esercitare un vero e proprio controllo sull’eventuale transito di armi e merci nella Striscia di Gaza, controllo che creerebbe all’Egitto non pochi problemi interni.
Ieri l’Onu, per voce del segretario generale Ban Ki Moon, ha espresso una forte critica nei confronti delle operazioni israeliane, giudicate sproporzionate. Come valuta la posizione delle Nazioni Unite?
Ban Ki Moon ha parlato in rappresentanza di una sorta di posizione media dell’opinione pubblica di tutto il mondo, e di questo Israele dovrà tenere conto. L’Onu da parte sua ha già approvato una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che per ora è stata respinta dalle due parti, e allo stato attuale dunque non c’è alcuna possibilità concreta di andare al di là delle dichiarazioni, almeno fino al momento in cui non si saranno create le condizioni sul campo per cui le due parti in causa abbiano interesse a rendersi disponibili per una tregua. A quel punto certamente l’Onu sarà parte fondamentale della soluzione: qualunque tipo di piano si affermi, alla fine dovrà per forza sfociare in una missione internazionale sotto l’egida dell’Onu. Al momento però non siamo ancora arrivati a quel punto, e le dichiarazioni ufficiali non sono sufficienti per arrivarvi.
Qual è invece il ruolo che sta giocando l’Unione europea?
L’Unione europea ha un problema più complicato. Si è mossa in maniera formale, con Solana e la Ferrero-Waldner, e si è dimostrata l’Unione europea di sempre, cioè sostanzialmente inefficace, e più declamatoria che altro. Al tempo stesso però non si può nascondere che la missione di Sarkozy – quella sì importante ed efficace – è tutto sommato una sorta di missione europea. È l’azione di un’Europa della cooperazione intergovernativa, che si occupa dei problemi più urgenti (come anche la crisi economica), e che sta avendo nettamente il sopravvento sull’Europa federale, che, com’era facile prevedere, nella fase del dopo-Maastricht sta sempre più perdendo di efficacia.
Ora il ministro Frattini si appresta a una missione che prevede contatti con le varie parti in causa. Che prospettive ha questa azione, soprattutto per quanto riguarda la tappa in Siria?
Io credo che il viaggio che Frattini sta cominciando a compiere sarà molto importante: ripercorrerà le stesse orme di Sarkozy, cercando di aumentare le pressioni sulla Siria e l’Egitto. L’obiettivo è portare la Siria a un atteggiamento cooperativo, per ottenere un cambiamento nella posizione di Hamas. Tutto questo, però, è reso difficile da un fatto: si tratta di un momento molto delicato, alla vigilia sia dell’insediamento di Obama, sia delle elezioni israeliane. La Siria difficilmente si esporrà oltre un certo livello fin quando non avrà chiaro a chi sarà in mano il prossimo governo israeliano, visto che c’è un problema di compromesso con Israele sul Golan, la cui soluzione dipende appunto dal nuovo governo. Al tempo stesso la Siria potrebbe avere interesse a un successo delle forze che sostengono l’attuale governo Olmert, perché se vincesse Netanyahu la possibilità di risolvere la questione del Golan si allontanerebbe sine die.
Cosa cambierà con l’insediamento di Obama?
Non ci saranno grossi cambiamenti. La Clinton, parlando al Congresso, ha detto qual è la posizione che la prossima amministrazione avrà, cioè una ferma chiusura verso Hamas fin quando non riconoscerà Israele e non cambierà atteggiamento. Al tempo stesso non c’è il minimo dubbio che l’amministrazione Obama farà di tutto per far evolvere in modo positivo la situazione mediorientale.
Il Papa richiama all’urgenza che tacciano le armi, non solo come richiamo spirituale ma anche perché l’opzione militare non genera soluzioni durature. Quali sono concretamente le prospettive di pace?
Il richiamo alla pace ha secondo me un valore relativo. Sono d’accordo sul fatto che il “soft power” sia più importante dell’“hard power” per arrivare alle soluzioni definitive. Però è anche vero che in determinate situazioni si può arrivare ad usare il “soft power”, cioè la politica e la diplomazia, solo dopo aver dimostrato di essere in grado di usare l’“hard power”. Questa è la posizione che Israele ha adottato, e credo che sia difficile darle torto. La prospettiva di pace, poi, c’è solo quando la maggioranza degli interessi delle parti in causa andranno a coincidere nella direzione del compromesso. E ritengo che la pace possa essere favorita solo dall’indebolimento dell’ostacolo principale, cioè Hamas.