Domenica il presidente eletto, Barack Obama, arriverà finalmente a Washington. Finalmente, perché nessuna agenda di un’Amministrazione entrante è mai stata così piena e ora – fermo restando l’intangibile principio “un presidente per volta” – tutto il mondo aspetta un segnale da Obama. Prima di sedersi attorno a un tavolo con gli uomini del Congresso per discutere del piano di stimolo per l’economia, in ordine di importanza viene lo scenario della Palestina. Sette giorni di bombe su Gaza sono l’affiorare di una questione ancestrale, oscurata in campagna elettorale dalla crisi economica e dalla rappresentazione di una calma apparente. Anche se i razzi palestinesi piovevano ininterrottamente sulle città israeliane. Ma nessuno va dal dentista prima che il dente inizi a fare male, anche chi sa che la carie è lì sotto che lavora.



Negli ultimi sette giorni il transition team ha mantenuto il silenzio che gli competeva, lasciando all’Amministrazione in carica il compito di maneggiare la crisi. Ciò non toglie che tutti si chiedano cosa gira in queste ore nella testa di Obama e dei suoi uomini e una domanda viene ancora prima delle ricette, della strategia, del contenuto: Obama sarà in grado di affrontare tutto questo?



L’ascesa di Obama al potere ha la forma di una cosmogonia in cui attorno a una personalità eccezionale si è plasmato un universo, un’immagine, un modo di concepire il potere. Il presidente eletto procede per suggestioni ben accostate, preferisce saltare dritto alla meta senza annoiare l’uditorio facendo tutti i passaggi. A Gaza si infrangono i buoni propositi, si disperde la carica immaginifica e si ritorna alla realtà.

Con le scelte di governo, Obama ha stipulato una polizza assicurativa con buona copertura, si è cautelato dal rischio di avere un team troppo giovane e inesperto e con la scelta di Bob Gates al dipartimento della Difesa cercherà di far fruttare quanto di buono fatto da Bush in otto anni di governo. Ora da testare rimane il presidente.



Negli ultimi giorni i media americani hanno ripreso in modo quasi ossessivo le parole che Obama ha pronunciato a luglio nella città israeliana di Sderot, dove ora (ma non da ora) si infrangono missili qassam: “Se qualcuno lanciasse dei razzi nella casa dove le mie figlie dormono la notte, farei qualsiasi cosa per fermarli e mi aspetto che Israele faccia la stessa cosa”. E’ miope – o subdolo – volgere un’affermazione di elementare buon senso in un manifesto politico e molti ne hanno approfittato per accreditare, attraverso le parole di Obama, le proprie idee.

Quello che ragionevolmente si chiede, invece, è che il Obama abbia il coraggio di fare delle scelte, rischiando anche l’impopolarità. In questo senso, il cursus honorum del primo presidente nero non restituisce l’immagine di un decisionista e su questo tasto il dimenticato sfidante alla presidenza, John McCain, ha battuto pesantemente in campagna elettorale. A complicare la situazione c’è l’elettorato che ha messo insieme la storica vittoria, in cui figurano contemporaneamente esponenti della lobby ebraica e fasce della sinistra liberal anti-israeliana. Sotto pressione si dà il meglio o il peggio, dipende.

Per circostanza storica tocca a Obama immergere le mani nel fango, sporcarsi un po’ e dare un indirizzo politico chiaro agli Stati Uniti, senza farsi ricattare e fuggendo la tentazione dell’alibi apocalittico: la situazione è l’eredità delle colpe altrui. Il rischio necessario è l’errore; quello contingente è l’aureola. Obama è chiamato a pagare un prezzo di immagine, abbandonando gli entusiasmi pacificanti con cui si è fatto strada finora per dedicarsi alla nobile arte del compromesso e attraverso questa dare un segnale. A prescindere da chi vincerà le elezioni di Israele a febbraio e a prescindere dalle delusioni dell’elettorato. Cercando, certo, di deludere il meno possibile, ma essendo cosciente che l’impopolarità è il rischio di ogni leadership che aspiri a considerarsi tale.

Mattia Ferraresi – Usa