Invocare il dialogo sembra sempre più difficile, mentre i giorni di guerra in Terra Santa si protraggono, e addirittura si aprono nuovi fronti di battaglia, come accaduto ieri al nord di Israele. Ma c’è chi, dall’interno, continua a operare perché le armi possano tacere e perché si possano costruire soluzioni durature. Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, è uno di questi, e spiega a ilsussidiario.net quali sono le speranze e le prospettive per la pace tra israeliani e palestinesi, e quale può essere il ruolo dei cristiani in questo.



Padre Pizzaballa, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica via per la pace. Cosa serve perché il dialogo possa concretamente funzionare?

Il dialogo è l’unica via che possa portare a soluzioni stabili e durature. Capisco che a molti la parola “dialogo” possa sembrare troppo usata, e quindi in un certo senso sciupata e priva di significato concreto. Ma non è così: non è un’espressione retorica, bensì il fondamento di una vera soluzione dei conflitti in atto. Perché poi ci possa essere realmente il dialogo bisogna innanzitutto porre fine ad ogni violenza, da ambo le parti. Quando parlano le armi non ci costruisce nulla: la soluzione militare, infatti, può risolvere temporaneamente un problema specifico ma non può risolvere i problemi di fondo, e non può quindi creare prospettive.



Se si dovesse ottenere il fatto che le armi tacciano, la politica da sola sarebbe poi sufficiente per una soluzione duratura, o ci vuole qualcosa in più?

Certamente la chiave per una soluzione del conflitto può venire solo dalla politica. Però bisogna intendersi bene su questo termine: la politica non è solo accordi di corridoio o decisioni prese nelle cosiddette “stanze dei bottoni”. La politica è anche opinione pubblica, è mentalità. Ecco allora che è necessario lavorare a tutti i livelli della vita sociale, anche attraverso i mezzi di comunicazione, perché si possa costruire un’opera che permetta di arrivare a un incontro. Se il dialogo è stata appunto finora una parola sciupata è perché mancavano tutte queste condizioni.



Il Papa, rivolgendosi a Israele, ha parlato della necessità di un «sussulto di saggezza». A suo modo di vedere, qual è il significato delle sue parole?

I significati di una tale espressione possono essere molti, e ciascuno può sottolinearne gli aspetti che ritiene più importanti. Io la leggo così: in situazioni difficili come quella attuale, in cui ci sono per forza di cose in gioco tante passioni, bisogna impegnarsi per fare in modo che tali passioni non arrivino mai a prevalere sulla ragionevolezza. Bisogna saper agire a mente fredda: così io interpreto il riferimento alla “saggezza”. Bisogna stare sulle cose, sui fatti, senza farsi trascinare dalle emozioni e dai facili mutamenti dell’opinione pubblica.

 

Come interroga la coscienza di un cristiano il dramma di una terra particolare – la Terra Santa  – che più si va avanti e più appare lontana dalla pace? Questa sofferenza che cosa insegna ai cristiani?

Innanzitutto i cristiani in Terra Santa non sono un popolo a sé: sono prevalentemente palestinesi, e quindi fanno parte della vita, della mentalità, delle aspirazioni e delle sofferenze del popolo palestinese. Dentro tutto questo, vivono però tutto da cristiani, cioè con un atteggiamento e uno stile che è tutto particolare. Innanzitutto senza violenza; e poi cercando di vivere concretamente il perdono. Bisogna intendersi bene su questa parola: il perdono non significa lasciar perdere e fare come se nulla fosse accaduto. Perdonare, infatti, significa innanzitutto definire il male che si perdona. Alla luce di questo, il cristiano non deve mai consentire che la mentalità caratterizzata dal rifiuto dell’altro entri a far parte del proprio modo di pensare. Mai escludere l’altro, chiunque esso sia e qualunque cosa egli faccia.

Molti cristiani stanno abbandonando il Medio Oriente. Lei cosa direbbe a chi sta per lasciare la propria terra perché si sente minacciato?

Innanzitutto dico che comprendo le ragioni che portano molti ad andarsene, e sono ragioni prevalentemente economiche e sociali. Però penso anche che ci siano tante ragioni per restare, e che queste seconde siano più forti delle prime. La prima ragione è il fatto che un cristiano in Terra Santa ha una missione che gli è affidata da tutta la Chiesa, cioè conservare la memoria cristiana in quella che non è una terra qualunque, ma la terra che ha dato origine alla nostra fede. Quindi è una missione fondamentale, che egli svolge a nome di tutta la Chiesa. L’altro motivo è il fatto che nonostante le molte forme di violenza, comunque c’è ancora tanta gente in questa terra che continua a credere in un modo diverso di vivere, ed è dunque importante essere qui per incoraggiare e sostenere questi tentativi.

In Italia, a Milano, ha suscitato polemica il fatto che – pochi giorni fa – in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani, proprio in un luogo simbolo del cattolicesimo. Lei, che vive in un luogo di preghiera dove tre religioni diverse tentano con estrema difficoltà di convivere, cosa ne pensa?

Che i musulmani abbiano avuto il desiderio di pregare per la situazione di guerra di questi giorni lo trovo legittimo. Per sensibilità e per rispetto, ritengo però che sarebbe stato sicuramente più opportuno farlo in un altro luogo. Si poteva facilmente trovare un luogo limitrofo, che non fosse proprio di fronte al Duomo.

Come giudica l’evolversi dei fatti in queste ultime ore? Dopo qualche spiraglio di dialogo, ieri si è addirittura aperto un nuovo fronte di guerra al nord di Israele.

Qui la gente fa veramente fatica a capire come vanno le cose; anche noi infatti non abbiamo moltissime informazioni, e certo non più di voi. Quel che posso dire è che naturalmente c’è molta apprensione, e c’è anche molta rabbia, soprattutto dentro la comunità islamica. Non posso fare altro che augurarmi che queste situazioni finiscano presto, perché più si va avanti e più il rancore si fa pesante.