Quanto andrà ancora avanti la melina iraniana sulla proposta Onu per uscire dall’impasse sull’arricchimento dell’uranio di Teheran? Probabilmente abbastanza a lungo da poter arrivare a praticare l’ennesimo catenaccio su una proposta successiva, e poi su un’altra ancora, e così via indefinitamente. Lo scopo di Teheran, d’altronde è chiaro: guadagnare tempo, nella consapevolezza che, mentre la Repubblica islamica aumenta il numero delle sue centrifughe e la propria capacità di arricchire l’uranio, la comunità internazionale si ritrova sempre meno compatta e con meno armi a disposizione per bloccare una possibile (e tuttavia non ancora dimostrata) proliferazione atomica di marca iraniana.
Il coinvolgimento, abbastanza svogliato peraltro, della Russia nella ipotesi di soluzione avanzata dall’AIEA (fare arricchire “l’uranio islamico” in Francia e Russia, collocando di fatto all’estero il 75 per cento delle riserve iraniane) aveva fatto sperare nella possibilità di qualche concreto passo in avanti. Si trattava in realtà della riedizione di una proposta antica, che Teheran aveva già bocciato in passato, e la cui novità consisteva principalmente nel ritorno a un’attitudine maggiormente cooperativa da parte russa.
Gli iraniani hanno fatto della questione dell’arricchimento un punto di principio, inscrivendola nel più ampio capitolo del loro (giusto) diritto a poter produrre energia atomica a scopi civili. Quello che tutti sanno, ma che è debolmente sostenibile in termini argomentativi, è che nei confronti del regime degli ayatollah pesa il sospetto, prevalentemente occidentale, circa le reali intenzioni di Teheran. È un sospetto che è legato in parte alla natura del regime e alla sua degenerazione sempre più autoritaria, con lo spostamento continuo del potere verso le fazioni apparentemente più bellicose ed estremiste legate al presidente Ahmadinejad. Ma è anche un sospetto che deriva dal comportamento tutt’altro che lineare e trasparente tenuto dalle autorità iraniane.
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Le implicazioni di un Iran potenza nucleare militare sull’equilibrio regionale sono note. L’ordine regionale, storicamente assicurato dalla presenza militare indiretta degli Stati Uniti a sostegno della posizione egemone di Israele, ha già subito una serie di scossoni dovuti sia al coinvolgimento diretto degli Usa nelle regione (Iraq e Afghanistan), peraltro con esisti non proprio brillanti, sia alle difficoltà dimostrate da Israele nella guerra del 2006 e nella successiva spedizione punitiva a Gaza.
Gli iraniani, che hanno tratto profitto da ognuna di queste situazioni, sono però invisi alla gran parte dei regimi dell’area, nella quasi totalità espressione del mondo sunnita; che, conseguentemente, guardano con estrema preoccupazione un’ascesa della potenza sciita.
Se il quadro mediorientale basterebbe a spiegare la preoccupazione che circonda tutta la vicenda, occorre però sottolineare come la sua rilevanza trascende lo scenario d’area. Anche così si spiega la determinazione americana nel cercare di impedire che l’Iran possa aggiungersi al club nucleare. Il fatto è che con la fine della Guerra fredda, e dell’equilibrio del terrore che la caratterizzava, il Trattato di non proliferazione mostra evidenti difficoltà di tenuta. Detto in maniera molto chiara, è estremamente difficile convincere Paesi che sono collocati in quadranti instabili del sistema internazionale, o regimi la cui legittimità è non del tutto incontestata, che senza l’arma atomica la loro sicurezza sia maggiore che con l’arma atomica.
La legittimità riveste quel naked power di cui già parlava Thomas Hobbes di qualche cosa di più che un semplice abito: ne rinforza cioè la sicurezza. Per regimi a legittimità internazionale problematica, il perseguimento del nuke power rappresenta pur sempre un’alternativa valida per ottenere quell’incremento di sicurezza che Paesi meglio inseriti nel sistema regionale o internazionale conseguono migliorando la propria rete di “relazioni sociali”. Alla medesima logica, del resto, dovette piegarsi lo stesso Israele, quando, proprio nei lunghi anni di totale ostracismo da parte di tutto il mondo islamico e dell’intera regione, si convinse che, accanto all’appoggio Usa, solo il conseguimento di un’autonoma capacità nucleare militare (il nuke power, appunto) avrebbe garantito la reale sicurezza dello Stato ebraico.