Dopo il Giappone, è la volta della Cina, la tappa più importante del tour asiatico del presidente Usa. A Pechino Obama parlerà con le massime autorità cinesi di economia e strategia, e molto meno di diritti umani. «È un cambio sostanziale rispetto al passato – sostiene Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa a Pechino – quando il tema dei diritti umani impantanava le discussioni sostanziali. Metterli in cima alla lista non conviene né alla Cina, che ne ha tutti i vantaggi, né agli Usa, che hanno tutt’altre grane da risolvere». In primis il rapporto tra il RMB e il dollaro.



Obama ha concluso la visita in Giappone e oggi è a Pechino. Al di là delle singole questioni affrontate, come il caso della base di Okinawa e l’impegno del Giappone in Afghanistan, come cambiano le relazioni tra i due paesi?

Il Giappone attraversa una fase molto complicata. È ancora la seconda economia del mondo, ma è in fase di drastico ridimensionamento: disavanzo pubblico al 200 per cento del Pil, ripresa trainata dagli aiuti di stato e dall’economia cinese, Pil che a fine anno potrebbe subire il sorpasso da parte di quello della Cina. il Giappone, in altre parole, deve adattarsi ad un nuovo secolo in cui sarà seconda potenza regionale, dopo la Cina. Hatoyama sa che gli Usa non possono rinunciare ad un rapporto privilegiato con uno dei loro maggiori creditori, ma è anche consapevole della lenta marginalizzazione del paese.



E qual è la risposta strategica del Giappone?

Hatoyama propone di creare un’area di libro scambio in Asia. L’idea non è nuova e se ne parla da parecchio tempo, ma la novità sta nel fatto che ora circolano i nomi di chi dovrebbe farvi parte. E qui nascono però subito le divergenze di vedute. Il Giappone vi include la Cina ma anche Corea, India e Australia. Il gioco è chiaro: è un “abbraccio” economico-strategico per contenere l’egemonia della Cina e condizionarla, infatti Australia e India, quanto a popolazione e Pil, compenserebbero Pechino. Alla Cina un mercato comune può anche star bene, ma non vuole, per ragioni opposte ed evidenti, Australia e India.



Questo come interferisce nel rapporto bilaterale tra Usa e Cina, il cosiddetto G2?

La mossa di Hatoyama è stata astuta e ha preso in contropiede sia la Cina, che brama di abbracciare l’America, sia l’America stessa. Di fronte alle proprie difficoltà il Giappone ha deciso di sparigliare. Ma un mercato comune asiatico limita l’importanza dell’America in Asia perché la marginalizza e perché rappresenta un fattore di rischio inaccettabile, essendo lo yuan e lo yen forti creditori del dollaro. La proposta di Hatoyama in realtà non va bene né alla Cina né all’America e si pone in contrasto con il forte rapporto bilaterale tra Pechino e Washington.

Sappiamo tutti che al centro della visita di Obama in Cina c’è la questione economica. E i diritti umani? 

Si parlerà di tutto, ma la novità, rispetto al passato, è che temi controversi come quello dei diritti umani, o del Tibet, non devono prevalere sui temi reali dell’agenda. Che sono sostanzialmente due: economia e strategia. È un cambio sostanziale rispetto al passato, quando il tema dei diritti umani impantanava e portava ruggine nelle discussioni sostanziali. Metterli in cima alla lista non conviene né alla Cina, che ne ha tutti i vantaggi, né agli Usa, che hanno tutt’altre grane da risolvere.

La Fed non può permettersi un dollaro sempre più debole, mentre Geithner sa bene che un dollaro forte metterebbe in grave difficoltà l’economia Usa. Una rivalutazione del RMB aiuterebbe l’economia americana, ma penalizza fortemente Pechino. Come si risolve la partita?

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È il cruccio fondamentale. Il RMB negli ultimi quattro, cinque anni si è già rivalutato di circa il 18 per cento rispetto al dollaro, ed è possibile che nei prossimi cinque anni possa esserci un’ulteriore rivalutazione tra il 15 e il 20 per cento. La rivalutazione penalizza fortemente la Cina: sia perché vuol dire una perdita di valore critica per i 1700 miliardi di dollari Usa che costituiscono le sue riserve, sia perché vuol dire una perdita di competitività di circa il 15-20 per cento per le aziende cinesi. Una delle possibili vie d’uscita è che Cina e Usa facciano insieme un “micro management”, pilotato, della svalutazione del dollaro.

 

Quale Barack Obama attendono i cinesi? Prevale l’uomo politico, il leader di una potenza in fase di ridimensionamento, o il leader carismatico?

 

Attendono l’Obama innovatore. Sono fortemente suggestionati dall’uomo carismatico. Al tempo stesso c’è molto realismo e tutti lo attendono al varco per vedere cosa riuscirà effettivamente a fare. il presidente americano dal canto suo si è molto preparato. In molti si sono sorpresi che la visita del presidente sia avvenuta in ritardo, data l’importanza dei rapporti bilaterali, rispetto alla data della sua elezione. Ma da un lato Obama ha già incontrato Hu Jintao alcune volte: a Chicago, a Londra, a New York. Dall’altro il ritardo è motivato dalla volontà di preparare tutto nei minimi dettagli. Sessanta commissioni miste hanno lavorato nove mesi per preparare questa visita.

 

Qual è lo stato dei principali dossier aperti di politica estera? Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina per affrontare il nodo di Iran, Nord Corea e Afghanistan…

 

Sulla Nord Corea un accordo strategico di cooperazione è già definito. Anche sull’Iran ci saranno dei passi avanti e, sperabilmente, sull’Afghanistan, che rimane la questione più delicata. Pechino è disposta a intervenire, ma non sotto la bandiera Nato, bensì sotto quella dell’Onu; cosa che per l’America complica un po’ le cose. Ma è un fatto politicamente importante, perché mentre in occidente i paesi impegnati rimangono ma in realtà ambiscono ad andarsene, la Cina non si pone il problema di evitare l’intervento, ma nemmeno vuole una Nato alle porte di casa propria. Meglio l’Onu, in cui la Cina siede in consiglio di sicurezza.

 

Quale sarà, sotto il profilo ideale e culturale, lo spirito del paese che troverà il presidente americano?

 

Mentre ancora vent’anni fa la Cina accusava una sorta di sudditanza verso il sistema politico americano, oggi rispetto a quello stesso sistema politico è molto più sicura di sé e non accusa alcun tipo di minorità psicologica. Non è solo la forza del creditore, ma di chi vede che il proprio sistema non funziona molto peggio di quello che ha causato la crisi economica mondiale; tutt’altro. All’anarchia finanziaria la Cina risponde, a suo modo, con più libertà. Le imprese sono molto più libere, ma le banche molto più regolate.

 

Esiste la possibilità che lo sviluppo economico getti le basi per nuovi, indesiderati cambiamenti politici incontrollabili?

 

No, perché lo stato cerca di anticiparli. Proprio alla vigilia della visita di Obama il vicepresidente del partito, Xi Jinping, ha tenuto una conferenza dicendo che occorre “spingere la crescita del partito di governo di modello di studio marxista”. Nel formulario politico del partito cinese si tratta di un cambiamento radicale. Tradotto: di fronte ai problemi del sistema politico economico occidentale, che esce tutt’altro che vincitore dalla prova della crisi, il partito cinese non intende tornare indietro, al socialismo di stato, ma non rinuncia a trovare strade nuove. Le riforme, in altre parole, non si fermano. Prima il partito cinese si definiva marxista-leninista. Parlare di “partito di governo di modello di studio marxista” prelude ad una sperimentazione politico economica che non ha come fine il capitalismo occidentale, ma nemmeno intende rinunciare alla ricerca di nuovi spazi e di nuove prospettive.

 

Ma tutto questo cosa sta a significare?

 

Se non mi definisco più marxista-leninista ma dico che uso un “modello di studio marxista”, per Pechino qualcosa cambia e molto. Non è più la difesa fuori tempo dell’orgoglio marxista in un paese capitalista, ma la rivendicazione del successo del sistema pragmatico sperimentato in questi anni.