Il desiderio di giustizia è insito in noi. Ciascuno di noi si aspetta di essere trattato correttamente, vale a dire “come tutti gli altri”, o “secondo le regole”, o comunque secondo il criterio in base al quale questa voglia irrefrenabile di giustizia può essere misurata.
Quando avviene una violazione di questa regola, raramente ci si ferma all’irritazione o alla indignazione, ma spesso viene messo in gioco qualcosa di più profondo, qualcosa che tocca la stessa psiche della vittima dell’ingiustizia e che può anche avere delle conseguenze permanenti.
Non che ci si aspetti una vita equa e imparziale: il tempo è brutto, diventiamo vecchi, ogni tanto ci colpisce una malattia. Queste cose, sia pure controvoglia, arriviamo ad accettarle, ma talvolta troviamo difficile accettare ciò che succede, forse perché pensiamo che se la fortuna fosse girata diversamente, anche il risultato sarebbe stato diverso.
Mercoledì sera, per due entusiasmanti ore è sembrato possibile che l’Irlanda si qualificasse per la Coppa del mondo in Sud Africa. Questo è il contesto in cui si situa la violenta reazione successiva, che va al di là del calcio, forse perché, nell’immaginario collettivo irlandese, gli anni di Charlton sono tuttora associati con l’inizio del periodo della Tigre Celtica.
Nel pieno della recessione, la prospettiva di potersi ancora qualificare portava con sé un significato più alto, capace di far uscire la nazione dal fatalismo che ha contrassegnato gli ultimi diciotto mesi. Questa speranza è svanita a seguito di un atto generalmente giudicato scorretto, determinando un potenziale strappo nella psiche irlandese che potrebbe causare un danno permanente.
Un tale atteggiamento può trovare giustificazione nel fatto che, circa diciannove mesi fa, gli dei cambiarono idea su noi irlandesi. Fino ad allora eravamo immersi in una Jacuzzi di buona fortuna, di crescente prosperità, ottimismo e saltuari successi sportivi. Poi, praticamente nello spazio di un mattino, tutto è cambiato, l’economia ha staccato la spina e i successi sportivi sono spariti. La rabbia ha cominciato a montare nel cuore di un popolo fino ad allora tranquillo.
Chi non ha vissuto il periodo delle Tigre Celtica non può capire il clima di questo ultimo anno e mezzo, e se non avete condiviso la speranza di quelle due ore di mercoledì, vi sarà difficile capire il finimondo che si è scatenato dopo: messi insieme, i due fatti hanno spinto a pensare di avere il Fato contro di noi qualunque cosa facessimo. In questa luce, l’uscita dell’Irlanda dai mondiali non viene vista come una semplice sfortuna, ma come una seconda disgrazia dopo quella economica, di cui ancora non ci siamo fatti una ragione.
È possibile, perciò, che la sconfitta di Parigi ci spinga verso una più chiara comprensione del perché ci sentiamo, e non solo nello sport, così a terra. In effetti, a livello inconscio, la sconfitta per un gol rubato ha esacerbato i sentimenti provocati dalla precedente crisi economica, di cui il gol di mano rappresenta, emotivamente, una versione semplificata. Tutti hanno visto il fallo di mano e anche la stampa e il pubblico francesi ritengono rubata la vittoria, quindi la soluzione è semplice, anzi ovvia. E allora, a livello più profondo, si ripropone la stessa logica: perché non rifare anche la Tigre Celtica alla luce di ciò che ora sappiamo?
La qualificazione della Francia, con il cinico opportunismo di Henry, provoca la stessa intensità di rabbia dei salvataggi governativi di quei banchieri responsabili della massiccia crescita nel prezzo delle abitazioni, che hanno alla fine provocato la crisi. In entrambi i casi, chi ha tratto vantaggio dall’inganno continua senza conseguenze, mentre ai cittadini viene tranquillamente detto che, sì non è giusto, ma che non c’è niente da fare: le regole sono regole! Come la Fifa declama che l’arbitro è l’ultimo giudice, così i responsabili dell’economia affermano che non vi è nessuna possibilità di riparazione morale, nonostante la chiara violazione dell’etica e delle regole che è al cuore della crisi finanziaria.
Come commentatore mi sono trovato in una situazione particolare, bloccato da quella che si è rivelata poi essere influenza suina e costretto a seguire la partita alla radio, quindi a immaginarmi cosa succedeva sul campo. L’immagine che mi sono formato è che Thierry Henry ha aggiustato con la mano il pallone, non una ma due volte, prima di fare il gol. Giovedì mattina ero pronto a dar l’assalto alla Bastiglia, convinto che la partita doveva essere , e sarebbe stata, rigiocata.
Giovedì sera ho potuto finalmente vedere la partita su YouTube, e come posso dirlo? Sì, si è trattato certamente di un fallo di mano e se l’arbitro lo avesse visto il gol avrebbe dovuto essere annullato. Ma una conclusione simile era possibile solo vedendo l’incidente più volte e da diversi angoli di visuale.
Senza la tecnologia, non era così immediatamente chiaro come risultava dai commenti post partita e, a mio parere, è avvenuto tutto molto velocemente e sarebbe stato difficile vederlo con certezza a occhio nudo. In effetti, l’unica prova visiva si potrebbe trovare sulla faccia di Henry dopo gli abbracci del dopo gol. Per questo mi sembra che ciò che è successo poi abbia più a che fare con la sottrazione della speranza che la fantastica prestazione della squadra aveva creato, piuttosto che con gli aspetti etici del gioco.
Fughiamo ogni dubbio. Henry ha toccato il pallone con la mano? Sì. Volontariamente? Probabilmente, anche se senza premeditazione. Ne ha ricavato un vantaggio? Sì. Perciò il gol era irregolare? Tecnicamente, sì. L’arbitro avrebbe dovuto vederlo? Non necessariamente. Avrebbe dovuto vederlo il guardalinee? Probabilmente. Tutto questo è ingiusto? Senza dubbio.
A questo punto la mia opinione è che questo incidente è un esempio di ciò che succede continuamente nello sport. Se rigiocare una partita possa essere una conseguenza del giudizio sull’operato arbitrale è un punto controverso, ma nella situazione attuale non è possibile. Le decisioni arbitrali sono soggette all’errore umano e non tener conto di questo porterebbe al caos, rendendo il gioco ingovernabile, nonostante gli aspetti di scorrettezza, non sportività e, quindi, di ingiustizia.
Dato che subito dopo la partita sembrava evidente, anche perché lo stesso Henry aveva ammesso il fallo, che sarebbe intervenuta qualche autorità superiore a rimettere le cose a posto e che, al fondo, si trattava di una questione di giustizia naturale, è apparso normale che la prima voce del governo a prendere posizione fosse quella del Ministro di Giustizia, Dermot Ahern, anche se la logica è distorta e paradossale. Che nessuno lo abbia trovato strano sottolinea quanto detto sul fatto che non abbiamo ancora identificato precisamente la natura della nostra indignazione. Altrimenti, i politici si sarebbero guardati bene dal coinvolgersi in questioni riguardanti la giustizia naturale.
Si pensi a NAMA (National Asset Management Agency), l’agenzia creata per gestire gli elevatissimi livelli di debiti “tossici” residuati dalla crisi: la gente pensa istintivamente che sia un errore, perché è stata costituita su considerazioni tecniche e pragmatiche e non per rimettere a posto le cose dal punto di vista etico. Se i politici non si rendono conto di questo, come possono chiedere ai francesi di accettare di rigiocare una partita?
Se un cittadino non tiene fede a un obbligo diventa un fatto morale ed è assoggettato a interessi e penalità, finisce svergognato sui giornali e rischia perfino di finire in prigione. Perché tutto questo non viene applicato a livello macroscopico? Se i soldi dei contribuenti vanno alle banche per consentir loro di ripartire dopo una crisi che loro stesse si sono procurate, perché gli stessi contribuenti devono continuare a pagare il pieno valore di prestiti contratti negli anni di follia?
I politici ci dicono che le banche sono essenziali per la nostra sopravivenza e che non si possono di conseguenza applicare principi morali. Il conflitto sembra coinvolgere due interessi contrapposti che ci toccano entrambi e, come nel calcio, il cittadino deve concludere che il vero problema è di non essere sufficientemente grande perché la sua situazione possa essere considerata nella giusta prospettiva morale.
L’episodio di Henry ci dà un buon pretesto per esprimere emozioni non esprimibili, o che apparirebbero anarchiche, nel contesto politico-economico. Ma rimane un pretesto e con il calcio è facile, perché possiamo scaricare la nostra rabbia su un gruppo di semi anonimi personaggi della Fifa e, comunque, se la decisione di rigiocare la partita portasse all’ingovernabilità, questo non sarebbe un nostro problema.
Ma se chi dichiara il proprio impegno a rispettare le regole ci dice che le regole sono in seconda linea rispetto al risultato, cosa se ne farà la persona comune del suo innato senso della giustizia naturale, la forza cioè che gli fa rispettare le regole? Potrebbe finire per chiedersi se le regole esistano per consentire agli imbroglioni di arricchirsi.