Gaby Hinsliff è uscita dal gruppo – si potrebbe dire, parafrasando il titolo di un fortunato romanzo giovanile pubblicato qualche anno fa. Gaby Hinsliff è forse un po’ meno celebre di Jack Frusciante, almeno tra i giovani: ma altrettanto nota nel suo settore, visto che è o per meglio dire era, la notista politica dell’Observer, antico settimanale britannico di simpatie progressiste. E il “gruppo”, in questo caso, non è celebre come i Red Hot Chili Peppers, ma molto più nutrito: si tratta delle madri in carriera, le tante donne che tentano di dividersi tra un lavoro tanto soddisfacente quanto monopolizzante, e una vita familiare fatalmente relegata in secondo piano.



Aveva tutto, Gaby Hinsliff: una luminosa carriera giornalistica, un bel bambino, Freddie, di due anni, un marito disposto per amor suo a sacrificarsi personalmente e professionalmente, e persino a sopportare la tata, naturalmente a tempo pieno. A mancarle non erano dunque i cosiddetti aiuti alle madri lavoratrici, comunemente spacciati per strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, in realtà sempre più somiglianti a mere, per quanto articolate, strategie di delega totale della prima in favore del secondo. Cosa mancasse alla Hinsliff, lo dice lei stessa nel lungo articolo pubblicato domenica scorsa dal settimanale, in cui ha spiegato le ragioni delle sue dimissioni dall’ambita posizione che occupava. Racconta, Gaby Hinsliff, di sospirate vacanze interrotte all’improvviso, di tour de force fino all’alba per riuscire a trascorrere un po’ di tempo con suo figlio, di telefonate dall’Afghanistan in cui la voce rotta e confusa del bambino risuonava nella cornetta, di giornate lavorative sempre troppo lunghe per mettere capo a un po’ di tranquillità familiare. «Ciò che andava perduto» – ha scritto Hinsliff – è la vita, se per “vita” si intende avere tempo da dedicare alle persone che si amano, lasciarsi coinvolgere dal mondo circostante, “avere” una casa invece che semplicemente “mandare avanti” una casa».



 

Gaby Hinsliff non è certo sospettabile di simpatie clericali o tradizionaliste. Eppure, il suo pensiero mostra una pericolosa vicinanza a quelli che dalle nostre parti vengono sbrigativamente liquidati come rigurgiti clericofascisti: quelli che vorrebbero riportare la famiglia al primo posto tra le priorità delle donne, mettendo in discussione gli imperativi egualitaristi e efficientisti. La stessa Hinsliff ammette di aver inizialmente pensato all’ennesimo tentativo di rispedire le donne “in cucina” quando, tornata dalla maternità, aveva letto il report del think-tank Policy Exchange – pubblicato lo scorso anno – sull’insufficienza delle politiche di conciliazione, troppo focalizzate sul lavoro e troppo poco sul desiderio delle donne di dedicarsi personalmente ai figli. La stessa tesi sostenuta dal report di Cristina Odone, scrittrice e ricercatrice del Centre for Policy Studies, significativamente intitolato “What women want”: quello che la maggior parte delle donne vuole realmente, afferma la Odone dati alla mano, non è lavorare come e più degli uomini, ma realizzarsi come compagne, membri di una comunità, e soprattutto come madri. Alla fine, anche Gaby Hinsliff le ha dato ragione.



Una profonda revisione dei luoghi comuni sul ruolo femminile, sulle politiche di conciliazione, sul lavoro di cura è dunque necessaria.

 

 

A dirlo non sono più solo le voci provenienti dal versante confessionale, o da quello politicamente conservatore: e non soltanto in Gran Bretagna. Basti pensare al “Manifesto del lavoro” che la Libreria delle Donne di Milano, storico centro del femminismo nazionale, ha proposto al pubblico dibattito un paio di settimane fa. Sottotitolo del documento è “perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più”: le autrici chiedono di ripensare l’intera organizzazione del lavoro, che ormai non sta stretta solo alle donne, ma alle esigenze vitali di tutti, donne e uomini. La stessa richiesta emerge dalle parole della Hinsliff, quando afferma: «come molte altre donne, vorrei ancora lavorare: soltanto, non voglio lavorare in questo modo. Il problema è quanto fondatamente i genitori come me possono davvero aspettarsi che l’ordinaria vita aziendale si inchini alle nostre esigenze». Non è più solo il problema dei cattolici, dei reazionari, dei maschilisti: è il problema di Gaby Hinsliff, è un problema di tutti.