Ha destato interesse la scorsa settimana la notizia che il concerto degli U2 per celebrare il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, che era previsto a ingresso libero alla Porta di Brandeburgo, si sarebbe tenuto dietro un muro eretto dall’organizzatore, MTV, proprio a pochi metri dal perimetro di quello originale. Alla fine, gli organizzatori hanno messo degli schermi giganti per consentire alla gente di vedere lo spettacolo anche dall’esterno della zona cintata, ma ciò non ha impedito che una certa ironia si infiltrasse nella coscienza di un’Europa così cambiata in questi vent’anni.



Ci si è affrettati a spiegare che la barriera era dovuta a “ragioni di sicurezza”, per “contenere la folla”, per permettere ai negozi e ristoranti attorno di continuare a lavorare, e i fan sono stati invitati a seguire il concerto in tv. Ai berlinesi è tornato il ricordo, due anni prima della caduta del Muro, nel 1987, di un concerto all’aperto di David Bowie nella parte occidentale della città che finì in scontri tra polizia e fan delusi della parte orientale. Nel 1988, la Stasi permise agli ammiratori di Michael Jackson di ascoltare i primi brani del suo concerto per poi intervenire energicamente e disperdere la folla. Le cose sono cambiate, ma qualcosa -cosa? – no.



Naturalmente, non sono la stessa cosa i limiti posti alla libertà umana dalla liquidità economica e quelli imposti dai manganelli della polizia, ma per l’uomo entrambi possono provocare lo stesso dolore, insoddisfazione e rabbia. In fondo, come più canzoni degli U2 testimoniano, i muri sono dentro. Il loro manifestarsi all’esterno può assumere la forma di malta e mattoni, di squadracce, di controllori o di sorridenti addetti alla sicurezza, ma il risultato interiore è sempre lo stesso: la sensazione di una barriera tra il cuore umano e l’oggetto del suo oggettivato desiderio.

Le celebrazioni di questo ventesimo anniversario sono più sotto tono di quanto ci si sarebbe aspettato nei giorni inebrianti del 1990, quando i pensatori di tutto il mondo annunciavano “la fine della storia” e il trionfo della pretesa del capitalismo di essere l’unica via per soddisfare il cuore dell’uomo.



Non ci si immaginava di certo, allora, che il ventesimo anniversario della liberazione si sarebbe celebrato all’ombra della peggiore crisi economica della storia, un’ombra gettata dai concreti limiti strutturali del sistema capitalistico. Gli scorsi diciotto mesi hanno visto crollare su se stesso quello che potrebbe essere definito il Muro di Berlino dell’economia di mercato, con lo sgretolarsi dei sistemi la cui “vittoria finale” era stata annunciata due decenni fa.

Molto prima della caduta del muro vero e proprio, o che le “Rivoluzioni di Velluto” dilagassero per l’Europa dell’Est, il filosofo e scrittore, allora cecoslovacco, Vaclav Havel aveva sviscerato la natura dell’ideologia comunista, sebbene più a beneficio del mondo esterno che delle vittime dirette, che potevano trovare i suoi scritti solo nella forma del samizdat.

 

Le sue osservazioni non invitavano al compiacimento i suoi lettori occidentali, ai quali chiariva che a suo parere il problema non era esclusivo di uno solo dei due sistemi. Anni prima del crollo del comunismo, egli scriveva che l’ideologia socialista dell’Est era una “immagine in uno specchio convesso” del capitalismo dell’Occidente, una versione esagerata di qualcosa connesso fondamentalmente con la perversione del desiderio umano.

 

L’ideologia, ha affermato Havel in “Il potere dei senza potere”, “fa finta che le esigenze del sistema derivino dalle esigenze della vita. È un mondo di apparenze che cerca di farsi passare per la realtà”. Sulla questione del comunismo e del capitalismo, in “Politica e coscienza”, scrive che queste due “categorie, arzigogolate dal punto di vista ideologico e spesso anche semantico, sono da lungo tempo fuori tema”. Le questioni reali sono: se possiamo porre la moralità al di sopra della politica, ridare contenuto al parlare degli uomini e riabilitare l’esperienza personale dell’uomo come la misura autentica della libertà, mettendo al centro della questione, non una serie coerente di convinzioni, ma “l’Io autonomo, integrale e pieno di dignità”.

 

Quando Havel divenne presidente della Cecoslovacchia, il mondo aspettava di vedere come avrebbe applicato queste idee all’esercizio del potere, perché la sua esperienza sarebbe diventata una sperimentazione della possibilità della politica come canale per il desiderio umano. Egli aveva individuato nella società moderna il bisogno di ciò che chiamava “politica post-politica”, una politica definita non come tecnologia del potere, ma come mezzo per vivere con un significato.

 

Questo, aggiungeva, richiedeva una “rivoluzione esistenziale” che avrebbe impegnato l’umanità nella totalità dell’essere, andando oltre la politica e la società come convenzionalmente intese. Sottolineando ripetutamente che ciò era quasi altrettanto urgente nelle libere democrazie dell’Occidente quanto nell’area comunista.

 

Havel è oggi un personaggio un po’ più dubbio e la sua popolarità nel suo Paese è andata declinando, anche se non per precise ragioni connesse al suo comportamento. Il cambiamento sembra in parte dovuto al cinismo promosso dai media cechi, forse per un senso di disillusione e incomprensione.

 

Nel suo ultimo libro, “Al Castello e ritorno”, Havel descrive le esperienze di questi anni come presidente, unendo le riflessioni serie di un grande leader al centro di grandi eventi e i fantasiosi incisi di uno abbastanza saggio per prendere qualcosa troppo sul serio. In questo modo, offre forse la raffigurazione più chiara e realistica della società postcomunista, descrivendo la vita nei suoi aspetti essenziali negli anni successivi alla pretesa fine della storia.

 

“Al Castello e ritorno” è la storia di un uomo che è stato sulla cima della montagna e ha visto che lì, come ovunque, la razza umana è capace di grandezza, meschinità, eroismo e frustrazione, e che, anche dopo un’ubriacatura rivoluzionaria, la vita si ripresenta di nuovo ogni giorno.

 

Havel racconta che in un incarico elevato, come nella vita in generale, non si tratta solo di gloria e successi, ma molto più spesso di decidere tra mali più grandi e mali più piccoli. La vita è sempre complicata e niente è prevedibile. Tutto accade in un modo diverso da quello che ci si aspetta. Havel non risponde alle aspettative del lettore per una descrizione focalizzata sul problema del potere, ma risponde alle domande che si è posto lui stesso, rivelando la sua umanità nel cuore del potere.

 

Quanto emerge è una strana miscela di speranza e stanchezza, un profondo sentimento di frustrazione congiunto ad accettazione. Egli scrive dalla frontiera tra la politica a la vita umana, rivelando un uomo il cui spirito è stato logorato dal suo incarico e dagli attriti di ogni giorno, che è deluso e ferito dalla meschinità e dall’egoismo dei suoi concittadini, ma tuttora né disilluso, né amareggiato. Un uomo nell’ultima fase di una vita vissuta seguendo i propri ideali, ma con la costante coscienza dell’assurdità dell’utopismo.

 

Il “messaggio”, se possiamo dire così, è che continuiamo a fraintendere cosa è la libertà. Possiamo abbattere i muri per rispondere alle richieste insistenti dei nostri desideri più profondi, ma la risposta che cerchiamo non è per forza nell’idea di libertà dell’altra parte, o nel far proprie le bardature del sistema avversario. Il desiderio dell’uomo è senza confini e instancabile e la libertà non è qualcosa che può derivare ultimamente da un sistema politico o economico, perché la fame dell’uomo rimane inappagata da condizioni o risorse fisiche.

 

Queste sono ovviamente importanti per la felicità, ma a un certo punto deve subentrare dell’altro: comprendere che le cose che si propongono come obiettivo del desiderio umano sono solo dei gradini verso qualcosa d’altro, che continua tormentosamente a essere sempre più oltre, il che significa che l’uomo è al fondo insaziabile e non può in alcun modo diventare felice, fino a che non comincia a riconoscere questo paradosso.

 

E vi è anche un altro paradosso: il sistema capitalistico, forse quanto quello socialista, sopravvive nascondendo o soffocando la vera natura del cuore umano. Un uomo libero è uno che arriva a sapere che ciò che desidera non può essere comprato, così come non può essere trovato dall’altra parte di un muro. Le voci che sentiva provenire dall’altra parte circa la sua umanità non erano veramente la voce della libertà, ma solamente l’eco del battito del suo cuore.