La rivolta verde in Iran è arrivata a un punto di svolta. Sono sei mesi, ormai, che gli oppositori al regime degli ayatollah sfidano la repressione dei pasdaran e dei basiji, i temibili guardiani della fede in sella alle moto nere.

Inizialmente, qualche commentatore parlò di un fuoco di paglia, prodromico forse a una rivoluzione di velluto più ampia e dai toni pacifici. Non si riteneva maturo l’avvento di una repubblica islamica fedele ai principi dell’Islam, ma aperta ai bilanciamenti parlamentari e alla integrazione con la comunità internazionale. Talmente poco matura come prospettiva che gli Stati Uniti stessi si sono chiusi in un ambiguo silenzio, intriso di Realpolitik. Trattare con Teheran si deve, soprattutto per il peso strategico che il regime degli ayatollah continua a esercitare sugli scenari di crisi dell’Iraq e dell’Afghanistan.



Dopo l’ennesima repressione compiuta dai guardiani della fede, cui fa da controaltare una imbarazzante sparizione di Ahmadinejad dagli schermi pubblici della notorietà – circostanza, questa, assai sottovalutata dai media italiani e non solo – il tempo sembra scaduto.
Il Dipartimento di Stato ha condannato la brutale azione violenta di questi giorni e gli – almeno – dieci morti negli scontri. È la prima volta che ciò accade negli ultimi mesi e il cambio di rotta può essere spiegato sulla base di due considerazioni.



Da un lato, la coerenza con il discorso che Obama ha fatto al mondo da Oslo, ritirando il premio Nobel per la Pace: le guerre giuste esistono e l’affermazione di un regime rispettoso dei diritti umani può passare da scelte dolorose, ma necessarie. Il premio in sé crea una sorta di persuasione morale in chi lo riceve; il Presidente USA, alle prese con la riforma sanitaria e con i guai del terrorismo e della guerra in Centro Asia, vuole agire in coerenza con il dettato dei principi che ha espresso.

Dall’altro lato, l’Iran continua a dimostrarsi un partner inaffidabile, tanto sullo scenario regionale quanto su quello globale.
La questione nucleare continua a restare immobile, in uno stallo diplomatico intricato e pericoloso; l’Iraq che si avvicina lentamente alla pacificazione interna, vivrà nei prossimi mesi una durissima campagna elettorale, nella quale il peso di Teheran si fa sentire pesantemente, con incursioni militari armate e rivendicazioni di attentati.



La progressiva marginalizzazione iraniana dai commerci e dall’economia mondiale sta compromettendo la stabilità interna. Inoltre, tale circostanza rende meno onerosa la decisione di imporre nuove sanzioni, cosa che potrebbe essere decisa già la prossima settimana al Palazzo di Vetro. Le posizioni di Cina e Russia sembrano ammorbidirsi, laddove la posizione del regime iraniano diventa sempre più indifendibile.

Sembra, quindi, volgere al termine il tempo della Realpolitik. Si torna al pragmatismo ideologico, nel quale il principio del bastone e della carota torna a essere preponderante.
La comunità internazionale ha provato più volte a far ragionare Teheran; più volte ha dovuto tacere per mantenere aperto il dialogo. Ma le immagini di queste ore, dopo mesi di costante violenza, di censura e di torture, non si possono più tacere.

Non ci resta, nel frattempo, che ringraziare quei giovani che da mesi manifestano pacificamente per la loro libertà. Loro hanno finora dimostrato più coraggio degli Stati, di tutti gli Stati. Ma adesso occorre rispondere a quelle grida e far cessare quelle violenze.