Che lo Yemen sarebbe diventato un nuovo Afghanistan, a ben vedere, si sapeva già dall’inizio del 2009 quando al Zawahiri aveva annunciato la nascita di una nuova formazione di Al Qaeda nella penisola arabica. Proprio nello Yemen, l’unica repubblica della penisola arabica, uno stato nel quale la povertà è estrema, emergeva un nuovo leader, Said Ali al- Shiri, capo di un’ala jihadista tra le più efficienti e spietate. Nel giugno di quest’anno veniva notato come molti capi e quadri talebani, per sfuggire alla pressione dell’esercito pakistano, fossero riusciti a fuggire dall’Afghanistan e dal Pakistan nello Yemen, esportando la sovversione jihadista. L’orografia dello Yemen era ideale per la guerriglia, dato che il terreno è montagnoso e facilmente difendibile da forze leggere e mobili contro eserciti convenzionali. La criticità dello Yemen consisteva anche nel fatto che il 40% della popolazione è sciita e sarebbe stato possibile mettere in crisi l’organizzazione dello stato e operare una scissione rispetto alla maggioranza sunnita. Proprio quello che è accaduto quando la minoranza Huthi si è ribellata al governo centrale, costituendo un’enclave indipendente ai confini con l’Arabia Saudita.



Proprio nello Yemen sembrano saldarsi le due offensive della rivoluzione islamica contro l’Occidente: da una parte, come si è detto, parte del Paese è diventato un nuovo Afghanistan, da dove vengono intrattenuti rapporti con lo jihadismo internazionale; dall’altro la minoranza sciita Huthi viene aiutata e armata dall’Iran, alla ricerca di punti strategici da conquistare in vista dell’imminente conflitto con Israele e Stati Uniti. Sul primo punto è risaputo come Nidal Hasan, l’ufficiale americano di origine palestinese che ha provocato la carneficina di Fort Hood il 5 novembre scorso, sia stato sobillato da Anwar al-Awkali, reclutatore di Al Qaeda, predicatore in due moschee a San Diego e a Washington e poi emigrato nello Yemen. Non tutti ricordano però come, già il 1° giugno di quest’anno due soldati americani erano stati assassinati a sangue freddo a Little Rock da Abdulakin Mujahid Muhammad, convertitosi da poco all’Islam più estremo.



 

Ebbene proprio Muhammad aveva compiuto un viaggio nello Yemen dopo la propria conversione ma quel primo segnale non era stato preso nella dovuta considerazione. Ufficialmente si è cercato di non conferire il carattere di atto terroristico alla strage di Fort Hood ma è certo che, dopo di allora, l’impegno americano nello Yemen è stato rafforzato. Il 17 dicembre un bombardamento mirato uccideva 34 jihadisti e tale azione pare sia stata ordinata dal presidente Obama in persona. Il 24 dicembre un drone colpiva con un missile un gruppo di alti esponenti di Al Qaeda. Anwar al Awkali e il vero leader del movimento, Said Ali al- Shiri, riuscivano però per il rotto della cuffia a sfuggire alla morte.



Ma se l’impegno contro il terrorismo vede il teatro yemenita salire di priorità, ancora più gravi possono essere le conseguenze della scissione della tribù Huthi che sta diventando una vera guerra civile islamica. Data l’incapacità dell’esercito yemenita di venire a capo della situazione, negli ultimi mesi è intervenuto l’esercito saudita con l’appoggio dell’aviazione, da sempre il fiore all’occhiello delle forze armate del regno.

 

 

Come se non bastasse, nel conflitto sono intervenute anche le forze giordane e marocchine, in quello che è un sempre più possibile confronto fra arabi e persiani, fra sunniti e sciiti. Se questo può apparire lo scenario peggiore, va aggiunto che l’Iran ha spostato davanti alle coste yemenite i propri sommergibili tascabili, difficili da individuare e che potrebbero essere impiegati contro le navi saudite che tentano di tagliare i rifornimenti iraniani.

Per quanto sgradevole possa apparire la situazione, va notato come gli stati arabi abbiano perfettamente compreso la posta in gioco, impiegando su questo teatro di guerra le proprie forze migliori, ben diversamente da un’Unione Europea la cui imbelle opinione pubblica è incapace di sostenere uno sforzo che ridia efficienza e aggressività alle proprie forze armate.