Rompendo una lunga tradizione, la prima missione internazionale del nuovo Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, non ha come destinazione l’Europa ma l’Oriente estremo. Dopo aver visitato il Giappone, la lady degli Esteri sarà in Indonesia, in Corea del Sud e, infine, in Cina. Segno dei tempi che cambiano e della nuova geografia politica dell’arena internazionale, in cui l’architrave euro-atlantico è stato scalzato dalla special relationship con l’Asia, in cui il Pacifico ha preso il posto dell’Atlantico.



In particolare, leggendo tra le righe di un’agenda fitta di incontri, alcuni punti emergono con forza: innanzitutto, il fatto che le nuove relazioni internazionali saranno improntate al “passo a due” tra Washington e Pechino. La Cina è l’unico autentico antagonista della primazia americana e, non da oggi, gli Usa hanno tutto l’interesse perché questa relazione sia improntata alla collaborazione e non alla competizione.



I vincoli sono strettissimi tra i due Paesi e riguardano i gangli strategici della vita delle nazioni. Pechino detiene il 60% circa del debito pubblico americano, sotto forma di titoli di Stato. Una manovra che ha consentito agli Usa di prosperare su un’economia del debito per tutti questi decenni: spesa pubblica senza limiti e credito al consumo, finanziato proprio dall’acquisto di titoli da parte della Cina, che invece risparmia più di quanto investa. In cambio, Pechino può invadere il mercato americano con prodotti a basso costo, in modo da alimentare la propria bilancia commerciale e fare scorta di valuta preziosa.



La crisi economica e finanziaria in corso ha leggermente modificato questo paradigma. L’America ha ormai un deficit di oltre 800 miliardi di dollari (un terzo del Pil italiano per intenderci), che presto potrebbe sforare, anche alla luce del piano di salvataggio messo a punto da Obama e i suoi ministri, i 1.000 miliardi. La Cina riesce a finanziare circa i due terzi di questa cifra. Resta un terzo di debito americano che dovrà essere in qualche modo finanziato. In tal senso tornano molto utili le riserve che hanno accumulato in questi anni paesi come la Russia o gli Emirati del Golfo.

La relazione di interdipendenza che oggi gli Usa hanno con la Cina è la stessa che, fino a un quindicennio fa, avevano con il Giappone, ormai sceso al secondo posto nel ranking dei finanziatori. L’economica nipponica è in crisi profonda (il Pil del Sol Levante ha fatto registrare nel 2008 una contrazione di 12 punti percentuali), ma in virtù di questa necessaria diversificazione dell’approvvigionamento finanziario, gli Usa non lasceranno mai fallire uno dei loro alleati più importanti.

Specie ora che gli equilibri geostrategici si sono definitivamente spostati nel Pacifico. L’ascesa cinese preoccupa per il potenziale militare che è in grado di scatenare di qui a qualche tempo. La Corea del Nord continua a lanciare missili balistici a medio raggio come prova di forza e rimane un regime ambiguo per quanto concerne il programma nazionale di arricchimento dell’uranio. In tal senso, l’alleanza con Giappone e Corea del Sud servirà a ridefinire gli equilibri di forza e la mappa degli interessi americani in quell’area del pianeta.

La tappa in Indonesia, infine, dovrebbe servire per parlare di lotta al terrorismo integralista e per ribadire ciò che Obama ha detto nel suo discorso di insediamento: l’America vuole tendere la mano ai Paesi islamici, ma si aspetta che questi facciano altrettanto. L’Indonesia è il paese a più alta concentrazione di musulmani del mondo (circa 800 milioni) e un crocevia fondamentale per i nuovi traffici commerciali.

Gli Usa, quindi, approfittano di questo avvio della nuova Presidenza per risistemare le pedine e le priorità della propria strategia per il XXI secolo. E sembrano trascorsi anni luce da quando in Europa e per l’Europa passavano i destini del pianeta.