Domenica scorsa si è concluso il summit di Davos e la visita in Europa del premier cinese Wen Jiabao. Quest’ultima visita europea rappresenta senz’altro una svolta, dopo che il governo di Pechino aveva mostrato di non gradire che, nel dicembre scorso, il presidente Ue Nicolas Sarkozy avesse incontrato il Dalai Lama. E, nonostante sia stato freddo il rapporto con Putin, che a Davos ha  criticato un «sistema di crescita economica, nel quale un centro regionale stampa moneta senza sosta e consuma ricchezza materiale, mentre un altro centro regionale produce beni a basso costo e risparmia denaro stampato da altri governi», riferendosi al gigante asiatico, i rapporti sono tornati buoni. Tanto che Cina e Ue hanno fissato un vertice bilaterale che si terrà a Praga, subito dopo il G20 di Londra previsto per il 2 aprile prossimo. Se è presto per parlare di partenariato strategico, tuttavia si può senz’altro dire che le relazioni bilaterali hanno trovato nuovo slancio. Abbiamo parlato con Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa da Pechino, di Cina, Europa e Usa. Senza dimenticare l’Italia.



Dopo la “crisi” di dicembre nei rapporti Ue-Cina, in occasione dell’incontro tra l’allora presidente Ue Sarkozy e il Dalai Lama, il clima sembra rasserenato, con l’annuncio di un vertice bilaterale che si terrà in aprile. È l’inizio di una rinnovata volontà di collaborazione di Pechino con l’Europa?

Sì certamente è chiara, questa volta, una nuova volontà di collaborazione tra Cina e Paesi europei, direi. In qualche modo per anni la Cina aveva considerato la Ue come un blocco unico. Mi sembra che stavolta invece Wen abbia trattato agende simili, contigue ma non identiche tra i Paesi europei. In qualche modo dopo l’episodio con la Francia la Cina pensa a Paesi europei con politiche diverse che vanno trattati in modo diverso. Con la Germania si è sanato lo screzio parlando anche di diritti umani, ma senza metterli come una specie di precondizione. Con l’Inghilterra Pechino ha sottolineato una collaborazione finanziaria, e un ruolo molto importante lo ha avuto la Svizzera, che non è nemmeno nell’euro. Qui Wen ha parlato a Davos. Credo che sia i singoli Paesi europei non vogliano più essere condizionati dalle scelte di altro membro dell’unione, sia la Cina non voglia più fare di tutta l’erba europea un fascio. Questo oggettivamente porta alla necessità dei singoli Paesi europei di sottolineare la propria politica con la Cina senza farsi troppo condizionare dalle scelte di altri membri o dell’Unione.



L’Italia sta facendo i conti con le conseguenze di una crisi finanziaria che, almeno per una volta, non deve attribuire a se stessa. In un recente incontro pubblico con Giorgio Vittadini, il ministro Tremonti è tornato su un tema a lui molto caro: le cause della crisi stanno in una globalizzazione fatta troppo in fretta e troppo a debito.

In quel dibattito sono emersi punti importanti. Ci sono però forse problemi di prospettiva per Tremonti. Lui dice che la globalizzazione è stata fatta troppo in fretta e troppo a debito. Troppo in fretta per chi? In fretta in Asia significa e ha significato che più rapidamente più persone sono uscite da una situazione di povertà estrema, più rapidamente un regime orribile come quello maoista cinese si è sgretolato. Questi sono vantaggi per tutti. E se vogliamo fare un conto banale sul numero di persone coinvolte nella globalizzazione, le persone che escono dalla fame sono molto più importanti di quelle che, pur impoverendosi, non sono precipitate nella miseria.



Chi allora ha perso di più nell’integrazione dei mercati a tappe forzate alla quale abbiamo assistito nell’ultimo decennio?

Il troppo in fretta, in realtà, dice solo che c’è stato un ritardo storico, gravissimo di prospettiva in Europa, dove non si è capito rapidamente cosa stava succedendo nel mondo e non si è agito di conseguenza adattandosi. Ma se in Europa non si è capito per tempo che occorreva attrezzarsi, la colpa non è dell’Asia ma dell’Europa. Questa è una importante premesse storica per porsi nel modo più opportuno rispetto al futuro, visto che è sotto i nostri occhi un altro processo importante nell’Oceano Pacifico.

Si riferisce alla simbiosi economica tra Usa e Cina?

Sì e qui andiamo al secondo punto del ministro: la globalizzazione è avvenuta troppo a debito.

È vero che il debito accumulato oggi è mostruoso, ma è anche vero che ha creato una catena di dipendenza economica, finanziaria, commerciale e quindi anche sociale, politica e strategica molto forte attraverso il Pacifico, tra Usa e Asia, con l’Asia che finanzia l’America. Ciò che è rilevante e da tener presente per noi è che da questa catena l’Europa è fuori. Proprio il 2 febbraio il maggiore quotidiano giapponese, lo Yomiuri Shinbun rivelava che Obama vuole creare una politica di collaborazione con la Cina a tutti i livelli, economico, ma anche strategico e politico. La notizia che arriva da Tokyo lascia intendere che il Giappone non sarà escluso e tutto ciò è estremamente importante e delicato per l’Europa, che resta fuori da questo nuovo abbraccio.

L’Europa è destinata a rimanere in posizione marginale anche dopo la crisi?

Prima o poi la crisi finirà e gli Usa risorgeranno dalle ceneri, e i problemi attuali della Cina e dell’Asia magari si attenueranno. A meno di non pensare che l’America crolli e l’Asia pure, i rapporti tra Asia e America usciranno rafforzati per avere condiviso questo momento difficile in maniera concreta, l’Asia ha finanziato e finanzierà l’America. Quanto all’Europa, è probabile che stia meglio oggi, ma a meno che non crolli il sistema transpacifico alla fine della crisi Europa e Italia saranno sempre più marginalizzate. Questo forse non ci cambierà la vita nel breve periodo, però potrebbe cominciare una deriva strategica fondamentale per l’Italia.

La Cina ha sostenuto i consumi e quindi il sistema a debito Usa, che prima che un sistema economico è stato ed è uno stile di vita. Non negherà che la globalizzazione sia avvenuta troppo a debito. Ma se gli usa non consumano, che ne sarà dell’export asiatico?

È vero che troppi debiti sono una follia, ma è anche vero che questa mancanza di rispetto delle regole di base del capitalismo – che occorre risparmiare per poi investire – è un problema americano, non asiatico. L’Asia invece risparmia moltissimo. Questo cosa ci dice? Che c’è stata una crisi profonda del mondo di pensare il capitalismo in America, perché si pensava di investire senza risparmiare. Ma questo assunto deve essere riequilibrato, ritornando a risparmiare in America. Una delle prospettive più reali per tornare ad accumulare risparmio in America è quella di vendere tecnologia a questi mercati asiatici potenzialmente immensi. Ci sono discussioni in corso per vendere tecnologia di risparmio energetico a India e Cina. E la Cina sta esplorando il sistema per potenziare al massimo il suo mercato interno. Teniamo poi presente che nel rapporto chi ha credito – Cina – guadagna peso rispetto a chi ha debito – Usa – e questo ha una importanza strategica enorme.

Si parla di tecnologia per centrali nucleari già ceduta dagli Usa all’India e alla Cina…

Esatto. Questo porta soldi in America in periodo cruciale, intacca la domanda complessiva di petrolio, e quindi fa risparmiare sulla bolletta energetica globale, e poi, trattandosi di tecnologia duale, civile e militare, può aiutare a creare anche nuovi rapporti di sicurezza strategici. È, in altre parole, un nuovo mondo che si affaccia, un altro passo della globalizzazione, che prima era caotica ma probabilmente dopo la crisi economica si “riordinerà” secondo direttive inattese in Europa.

L’Italia sarà destinata a rimanere fuori dalle trasformazioni della catena del valore?

Noi, per non essere di nuovo in ritardo, come per la globalizzazione, dobbiamo attrezzarci e muoversi adesso. Tremonti fa benissimo, quello che dice sull’Italia e le piccole e medie imprese è sacrosanto. Ma, per dirla da qui, vede il mondo dall’Italia, non vede l’Italia dal mondo. Finirà la crisi ma non finiranno né l’America né la Cina. A quel punto dove sarà l’Italia? C’è un problema di regole della finanza, certo, ma c’è una dimensione politica e strategica di questa crisi che sembra non essere vista dall’Italia, che si crogiola sul fatto, anche giusto, che i privati italiani hanno meno debiti.

Eppure, abbiamo un sistema virtuoso di piccola e media impresa che ha trainato il nostro export facendolo volare il surplus prodotto dalla nostra economia reale in testa alle classifiche. La crisi ha colto di sorpresa un sistema produttivo – e anche un sistema bancario – complessivamente sano…

È vero, questo vantaggio attuale è reale ma come può essere usato oggi per il futuro quando la crisi finirà? Certo, non cambiare troppo, che significa partire dai vantaggi italiani, ma come può l’Italia usare questo suo vantaggio attuale per crescere oggi, quando gli altri sono in difficoltà? Se l’Italia non lo fa, domani potrebbe essere in difficoltà, come lo è stata per la globalizzazione.

Che cosa deve fare il nostro paese, dal suo punto di vista?

Cosa l’Italia dovrebbe fare in questa fase, beh, è un altro paio di maniche, ma anche qui c’è la storia che ci insegna. La prima cosa, direi, è cambiare in fretta un pregiudizio “culturale” nel senso ampio del termine. Credo che per un po’ di tempo ci siamo crogiolati con l’idea di uno scontro prossimo venturo tra Cina e Usa tipo lo scontro vecchio della guerra fredda. In realtà forse il futuro tra Cina e America non somiglierà a questo passato e noi non siamo affatto preparati, mentalmente, culturalmente e industrialmente. L’Italia ha contato per l’America, durante la guerra fredda, per i suoi rapporti anche ambigui, levantini con blocco dell’est e paesi arabi. Oggi quindi deve costruire questi rapporti con l’Asia, proprio per contare con l’America e con l’Asia. Come costruire questi rapporti è una questione di dettaglio, la cosa va studiata. Ma si può fare.