Sami Habib Istifo non sa neanche se è stato eletto, ma in attesa dei risultati si è già scelto un sostituto. “Qui se sei cristiano non puoi illuderti di vivere a lungo, se sei cristiano rischi il doppio perché a farti fuori non si rischia nulla”. Succede in Iraq, succede ad Hamdaniya, succede nel cuore di quella provincia di Nineveh che, fino a quattro mesi fa, sembrava un’area felice, l’ultima zona sicura per i cristiani in fuga da Mosul e dalle minacce di Al Qaida. Durante le ultime elezioni provinciali la grande paura è arrivata anche là. Minacce e intimidazioni hanno colpito sia il 49enne Sami Habi, sia gli altri due candidati in lizza per l’unico seggio riservato alla comunità cristiana. Sami Habib e i suoi avversari non ci han messo molto a capirlo, in quel clima un comizio poteva costare la vita o il rapimento. Tutto il resto della campagna l’han trascorsa chiusa in casa. “Alla fine sarebbe stato meglio non presentarsi, ma me l’avevano chiesto i miei amici e non ho saputo dir di no, solo ora mi rendo cono dei rischi. Ultimamente due esponenti della nostra comunità sono stati rapiti, ma se verrò eletto sarò il bersaglio numero uno. Per questo mi sono già scelto un rimpiazzo”.



Nel resto del paese non va certo meglio. Dalla caduta di Saddam ad oggi oltre 200 cristiani sono stati uccisi. Ad ottobre una campagna di violenze ha colpito la comunità di Mosul dove a marzo era stato rapito e ucciso il vescovo caldeo Paul Faraj Rahoo. In poche settimane 12 cristiani sono stati uccisi, varie chiese sono state attaccate, bruciate o rase al suolo. Settecento famiglie sono state costrette a fuggire ad Hamdaniya, in quella provincia di Nineveh che al tempo sembrava ancora sicura. Ma ora a sentir Sami Habib la situazione si è deteriorata pure lì . Sembra il destino di tutti i cristiani iracheni. Solo un terzo dei circa 800mila cristiani che vivevano in Iraq ai tempi di Saddam Hussein sono ancora lì, tutti gli altri sono fuggiti la gran parte in Siria, gli altri anche più lontano.



A Gaza e in Cisgiordania, dove un tempo i cristiani erano l’élite della comunità palestinese, la situazione è per molti versi ancora peggiore che in Iraq. “Vi narro, con cuore di padre e sacerdote, la morte di una figlia della nostra scuola della Santa Famiglia, la cara Christine Wadi al-Turk, la prima cristiana a morire in guerra” scrive a gennaio Padre Manuel Musallam, parroco dell’unica Chiesa di rito latino nella Striscia di Gaza. “Christine, alunna della terza media nella nostra scuola, è morta questa mattina per la paura e il freddo. Le finestre di casa sua erano aperte per proteggere i bambini dalle schegge di vetro in caso di bombardamento, ma gli ordigni che hanno colpito la casa vicina le hanno causato uno choc tremendo e lei se n’è andata al Creatore, è andata a lamentarsi per questa terribile situazione, ad invocare una casa dove non si pianga e non si urli, un rifugio dove tutti noi possiamo conoscere un po’ di gioia e felicità”.



A chi gli chiede quale sia la condizione dei cristiani in quella terra martoriata il parroco risponde con un’unica frase. “Se volete capire cosa succede a Gaza aprite la Bibbia, leggetevi le Lamentazioni di Geremia e capirete come si vive tra gente piangente e disperata, affamata ed assetata”. Quell’unica frase è un dito puntato contro tutti. Contro Israele. Contro Fatah. Contro Hamas. Contro i signori di una lotta che scaccia e calpesta i più deboli, i meno arroganti, i più rispettosi. Tutti coloro che non hanno nulla da conquistare, nessuno da sopraffare, ma possono soltanto sperare di sopravvivere o fuggire. I duemila cristiani di Gaza e quelli di Cisgiordania.

Tra Ramallah, Beit Jalla e Betlemme erano 35mila nel 1997. Oggi sono poco più di ventimila. E l’emorragia continua, inarrestabile, insanabile. A Taibeh le 1250 anime cristiane ci hanno fatto il callo. In arabo quel nome significa gentilezza. Prima era Ephraim, il villaggio sperduto dove vissero Gesù e gli apostoli prima di scendere a Gerusalemme. A ribattezzarlo ci pensò Saladino, il conquistatore di Gerusalemme, stupito dalla cordialità dei suoi abitanti. “Saladino non alzò neppure un dito contro Taibeh, ma oggi, stiamo veramente pensando di fuggire tutti” – sospira Maria, 35 anni, insegnante.

La grande paura iniziò nel settembre del 2005. Arrivò da Deir Jreer, un villaggio dieci chilometri più in là. A Deir Jreer avevano appena sepolto Hiyam Ajai. Era la fidanzata di Mehdi Kouri, uno dei tanti Kouri cristiani di Taibeh. Si erano conosciuti due anni prima. Poi una sera nella casa di Deir Jreer la famiglia di Hiyam aveva saputo. Lei aspettava un figlio. Ancora tre mesi e il frutto di quell’amore impossibile tra un cristiano e una musulmana sarebbe venuto alla luce. Finì tutto molto prima. Suo padre la colpì. Sua madre chiuse la porta. Giorni di liti a finestre chiuse. Fino a quando dalla casa di Deir Jreer, uscì il cadavere di Hiyam. “Quel cristiano l’ha violentata e lei s’è avvelenata” – raccontarono, senza una lacrima, padre e madre. Deir Jreer chiese vendetta. Un sabato sera i più assatanati marciarono su Taibeh. Suleiman Khouri se li ricorda bene.“Avevano bastoni e taniche di kerosene. Cercavano mio cugino, il fidanzato di Hiyam. Volevano uccidere lui e la sua famiglia, ma erano già scappati. Bruciarono la sua casa, poi diedero alle fiamme la mia e quella d’altri dodici parenti.”. In quel settembre 2005 Hamas non ha ancora vinto le elezioni, il fondamentalismo non è ancora al potere, ma Fatah e il suo governo non fanno nulla. “Le voci giravano da giorni e si sapeva che volevano punirci, ma nessuno mosse un dito. I poliziotti arrivarono solo domenica mattina. Il presidente Mahmoud Abbas ordinò un rapporto, ma come sempre – ricorda Suleiman – tutti restarono impuniti”.