Hillary Clinton ha mostrato di avere idee ben chiare su come e dove dirigere la politica estera statunitense. La settimana spesa fra Medio Oriente ed Europa è andata ben al di là di una mera dichiarazione d’intenti. Pochi discorsi, tante strette di mano e bozze di accordi. Toccherà ad Obama apporvi la firma, ma il capo della diplomazia Usa ha già messo il suo sigillo: l’America si muoverà lungo le direttrici del pragmatismo e della Realpolitik. Sepolti, almeno sulla carta, alcuni pilastri della Dottrina Bush. S’inserisce in questo solco la disponibilità Usa a rivedere i trattati nucleari con la Russia includendo anche armi strategiche, sottomarini e bombardieri e non solo le testate nucleare. L’idea di un disarmo più radicale è tanto gradita a Obama quanto era temuta da Bush. Hillary Clinton vuole ricreare un asse privilegiato con Mosca. Sa che l’aiuto della Russia è prezioso, non solo in sede Onu, ma anche per affrontare il nodo iraniano. Lo scambio fra una rinuncia allo scudo antimissili basato in Est Europa e la mediazione russa sul nucleare iraniano, seppur smentita ufficialmente dalla Casa Bianca, sarà l’approdo di un processo di dialogo e di riavvicinamento fra Mosca e Washington. L’Amministrazione Obama vuole mantenere la pressione sull’Iran. E’ consapevole che il mondo non può permettersi di vivere con un regime degli ayatollah dotato dell’arma atomica. Ma sa che senza Teheran la stabilità regionale, dal Libano a Gaza passando per l’Iraq e l’Afghanistan, rischia di restare un miraggio. Da qui l’idea di coinvolgere l’Iran nelle decisioni strategiche sul futuro della regione, Afghanistan in primis. L’invito formulato ai vertici della Repubblica islamica di partecipare alla Conferenza sull’Afghanistan in programma per fine mese è il punto più evidente della strategia “inclusiva” della Clinton. D’altra parte tuttavia l’America non vuole mostrare debolezze. Il cambiamento di approccio nei confronti del regime di Teheran non può essere privo di contrappesi. Non è un caso che Philip Gordon, assistente segretario di Stato per l’Europa, sarà a breve nelle capitali dell’Unione europea per convincere gli alleati a inasprire le sanzioni se sarà il caso. Impresa non facilissima. Gli europei spesso a parole puniscono, ma poi al netto le imprese Ue continuano a fare affari con le società iraniane.
Washington lavora su più tavoli. La Siria è uno di questi. La recente missione dei due inviati del Dipartimento di Stato Usa a Damasco rientra in un duplice schema: da un lato far uscire la Siria dall’isolamento e farla diventare – pur con tutte le cautele e la prudenza – un interlocutore sul fronte israelo-palestinese. Dall’altra invece ecco tornare la variabile Iran. La Siria negli anni di Bush junior si è lentamente avvicinata a Teheran. Più che per ragioni di affinità politica, poche, per questioni di opportunità strategica e di sopravvivenza. “Staccarla” da Teheran avrebbe l’effetto non solo di avviare un dialogo con Damasco, ma anche di isolare ulteriormente la Repubblica islamica.
Tutto questo terremoto politico è avvenuto in meno di 50 giorni. E in una settimana, quella del tour di Hillary nel Vecchio mondo, il mosaico geopolitico ha subito scossoni che potrebbero rivelarsi decisivi. A questo si aggiunga la questione cinese. La Clinton si è recata a Pechino a metà febbraio e anche ai notabili del governo cinese ha espresso una visione all’insegna della Realpolitik. Affari e risoluzione dei problemi in primis; diritti umani (e civili) trattati come ninnoli. Con tutti i pro e i contro di un simile approccio. E’ chiaro che la visione di Bush in parte plasmata da un approccio idealista e wilsoniano sui rapporti internazionali, sta subendo un prepensionamento. Anche se talune regole, taluni approcci di Bush, come la guerra preventiva e la supremazia Usa, non saranno scaricati alla leggera. La Clinton ascolta i consigli di James Baker di Henry Kissinger e di Brent Scowcroft, dicono a Washington. Tutti repubblicani, tutti realisti, tutti più o meno critici del neoconservatorismo di Bush. Ma chi ha scelto Obama per il cambiamento in politica estera, oggi, stante così le cose, può dirsi soddisfatto.
E qualche “sospiro” di sollievo lo stanno tirando anche i cosiddetti liberal. Sul fronte delle politiche sociali Obama si sta dimostrando sul fronte delle politiche un presidente “di sinistra”. Ha sbloccato – come promesso – i fondi per la ricerca sulle cellule staminali embrionali cancellando le restrizioni di Bush. Ha eliminato la cosiddetta Mexico City Policy; ha promesso che se il Freedom of Choice Act arriverà sulla sua scrivani lo firmerà. Se il Foca diventasse legge ogni restrizione all’aborto statale svanirebbe. La stessa decisione di stanziare 634 miliardi di dollari per dieci anni per la Sanità allo scopo di estendere la copertura sanitaria a tutti gli americani va in una direzione gradita all’ala sinistra del partito democratico. Obama non ha ancora spiegato in quale modo vuole riformare il sistema sanitario, ma finora ha dimostrato – ed è l’accusa che gli muovono i conservatori – di essere più fiducioso nel potere regolatore e distributivo del governo piuttosto che sulla libertà individuale. E anche sull’istruzione, pur non avendo ancora fatto granché, Obama ha gettato le basi per estendere il ruolo e il peso delle scuole pubbliche. Lo stesso piano di stimoli per l’economia in fondo va in una direzione del tutto nuova per gli standard Usa: ruolo centrale del governo federale, controllo più stretto sull’economia e piani di investimento per le infrastrutture.
Tutti progetti, visioni, idee che potrebbero rientrare a pieno titolo in quella promessa-slogan elettorale di change con cui gli americani hanno spinto Obama alla Casa Bianca. Oggi il presidente gode di una popolarità ancora alta (67%). Ma il sogno di costruire una maggioranza bipartisan e un dialogo con l’opposizione repubblicana è subito tramontato. Giochetti politici o invidie dei conservatori? Può darsi. Ma forse il centrismo e il realismo che Obama ha mostrato – grazie sinora alla sapiente regia della Clinton – sulla scena mondiale, è mancato sul fronte interno. E la durata dell’idillio con gli americani dipenderà soprattutto da questo.