“Afghanistan ultima trincea” non è solo un titolo, né una frase a effetto. È quel che penso quando, la scorsa estate, riparto per l’Afghanistan assieme a Fausto Biloslavo. Ci siamo andati la prima volta nel lontano 1983 per raccontare una guerra epocale conclusa dal ritiro sovietico, dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla morte del comunismo. Dall’Afghanistan di quegli anni si diffonde anche il silenzioso richiamo fondamentalista che porterà ai talebani, ad Al Qaida, e all’11 settembre.
Oggi, sette anni dopo l’11 settembre, il conflitto afghano segna un nuovo, fatale spartiacque. L’emozione e lo sdegno per la strage di Manhattan si è attenuato, l’incubo di Osama Bin Laden è stato in gran parte metabolizzato, l’Occidente ha imparato a convivere con un’endemica minaccia terroristica. E la crisi economica impone di abbandonare le avventure del recente passato. L’Iraq con il suo tremendo costo economico è, per molti, una delle principali ragioni della nuova grande recessione. In Libano, a Gaza e in Cisgiordania la sfida per la democratizzazione del Medio Oriente sembra arenata. Resta e sopravvive solo la trincea afghana.
La cacciata dei talebani prima risposta dell’America e dei suoi alleati occidentali al terrore integralista era sembrata una sfida vincente. La fine di quel medioevo integralista era stata salutata con entusiasmo a Kabul e nel resto del mondo. Di quell’entusiasmo sette anni dopo rimane poco. Sviluppo, democrazia, ricostruzione, sicurezza sono rimaste promesse incompiute.
Mandare all’incasso quella cambiale inevasa nel mezzo di una crisi economica devastante diventa oggi una sfida ardua, ma fondamentale per la credibilità dell’ Occidente. Abbandonare l’Afghanistan ai talebani, consentire ad Al Qaida di trasformarlo nuovamente nel proprio santuario sancirebbe la definitiva sconfitta del nostro sistema di valori, l’ennesima ritirata di un Occidente incapace di rispettare le promesse.
Anche tenere quell’ultima trincea è tutt’altro che facile. Me ne rendo conto visitando gli ultimi avamposti dei marines, isole sperdute nel mare talebano della provincia di Helmand, la regione più esposta all’infiltrazione fondamentalista dove venne rapito e tenuto prigioniero il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo.
Da lì seguo le forze speciali italiane impegnate nella provincia di Farah in un’ardua e serrata caccia ai gruppi talebani in movimento verso ovest. Dal confine con il Turkmenistan racconto le battaglie combattute dai nostri soldati per difendere il fortino di Bala Mourghab, una base avanzata indispensabile per garantire l’espansione della missione della Nato.
La visita a quei fronti caldi serve a comprendere che per vincere quella guerra non basta soltanto schierare uomini in divisa. Per sopravvivere al pantano afghano bisogna elaborare nuove strategie, riparare agli errori del passato, dividere il nemico. Le truppe straniere non possono combattere all’infinito un conflitto essenzialmente afghano.
Il modo migliore per difendere quell’ultima trincea è completare e accelerare l’addestramento di un esercito nazionale capace di garantire la sicurezza e lavorare in sintonia con la popolazione.
Nel frattempo bisogna sciogliere il nodo della doppia missione, di una presenza militare che prevede 50mila soldati – 18mila dei quali statunitensi – sotto il comando Nato e 17mila soldati americani sotto l’egida di Enduring Freedom, la missione per la lotta terrorismo attiva dal 2001.
Quelle due missioni spesso in conflitto – visti gli obbiettivi Nato nel campo della ricostruzione e quelli puramente militari di Enduring Freedom – sono spesso fonte di confusione e gravi errori come i bombardamenti di villaggi e insediamenti civili. Ma le truppe straniere devono anche imparare a uscire dai propri avamposti, comprendere le esigenze e le richieste di popolazioni che scontento, risentimento e anarchia spingono fatalmente nelle braccia dei talebani.
Conquistare il cuore e la mente degli afghani significa rilanciare i progetti di sviluppo disegnati dopo il 2001 e al tempo stesso tagliare i legami con un governo centrale cresciuto più nel segno della corruzione che della collaborazione con l’Occidente. Come in Iraq anche in Afghanistan bisognerà dividere il nemico recuperando con negoziati e trattative le fazioni più moderate e genuinamente nazionali dei talebani, combattendo senza quartiere quelle legate all’internazionalismo terrorista di Al Qaida.
In questo quadro strategico bisogna rompere l’ipocrisia di un’alleanza di facciata con un Pakistan trasformato dalla metastasi fondamentalista e dalle manovre dei propri servizi segreti deviati nella nuova dependance del terrore internazionale.
A sette anni dalla cacciata dei talebani l’impresa afghana è dunque ad un nuovo inizio. Vincerla riparando agli errori del passato non sarà né facile, né indolore, ma resta l’unico modo per uscirne senza conseguenze e a testa alta.