Che il cosiddetto “Afpak”, ovvero l’area al confine tra Afghanistan e Pakistan, fosse il ricettacolo delle instabilità del XXI secolo è stato ormai dichiarato da tutti, a cominciare dal Presidente americano Obama, che sposterà truppe e soldi dal teatro iracheno all’Asia centrale. Ma nel sistema “Afpak”, sono diversi fattori di rischio che si intrecciano e che rendono particolarmente vulnerabili gli attori regionali e internazionali coinvolti.
Si intrecciano, innanzitutto, due Stati sull’orlo del fallimento. O meglio, un Afghanistan già frammentato tra potentati locali, nuovi Talebani e signori dell’oppio e un Pakistan sempre più fragile. Ad attraversare costantemente la frontiera tra i due vicini, terroristi di ogni genere, spesso reduci da terreni di addestramento quali l’Iraq o la Bosnia; altre volte accoliti di nuova generazione per i Talebani, che fanno del malcontento verso la presenza delle truppe internazionali una leva formidabile di arruolamento. I due Paesi preoccupano ad un pari livello. Ma qualitativamente, laddove per l’Afghanistan è possibile intravedere un percorso difficile ma obbligato, il Pakistan presenta maggiori motivi di allarme. Innanzitutto perché possiede l’arma atomica, il cui utilizzo in quell’area potrebbe determinare un effetto domino incontrollabile. Quindi perché l’affermazione di un regime integralista in uno dei Paesi chiave per l’intero Medio Oriente allargato implicherebbe la creazione di un blocco retrivo di potere di impossibile gestione.
Dopo decenni di presidenza monolitica del Presidente, generale Musharraf, il Pakistan sembrava indirizzarsi su un percorso nuovo, fatto di una diversa dialettica politica ed internazionale. È vero, come spesso capita in queste circostanze, che la presenza di un “uomo solo al comando”, aveva garantito stabilità interna e una pax militare nell’area, grosso modo fondata sull’equilibrio atomico con il vicino indiano. Un equilibrio, quello interno, rotto da una sostanziale ambiguità dello stesso Musharraf, che ha lasciato campo libero al potentissimo servizio segreto nazionale, l’ISI, i cui elementi borderline (da noi si direbbe “deviati”) hanno approfittato del caos crescente per speculare sull’addestramento e sul riarmo delle fazioni integraliste più o meno assimilabili all’universo talebano. Con la conseguenza di una sostanziale ritorsione di quel sistema contro il suo stesso ideatore. L’attentato che costò la vita alla Signora Bhutto, pronta a stravincere le prime elezioni plurali dopo molto tempo, hanno creato poi una strozzatura insuperabile anche per chi, a cominciare dall’alleato americano, sempre aveva visto nel Pakistan un prezioso alleato nell’area strategica dell’Asia Centrale. L’elezione del vedovo della signora Bhutto, Zardari, alla Presidenza ha avuto l’effetto di affermare un potere politico debolissimo e un potere militare sicuramente più svincolato dalla politica, ma potenzialmente più pericoloso. Questa era la condizione imposta dagli USA per governare una non semplice transizione dall’area Musharraf, dopo il rientro dall’esilio di molti ex oppositori politici e il tentativo di costruire le condizioni per un governo di unità nazionale.
In quest’ottica va letta la recentissima marcia di Nawaz Sharif, ex premier estromesso proprio da Musharraf e sceso in piazza con migliaia di oppositori per chiedere il reintegro del capo della Corte suprema, il giudice Mohammed Chaudry, dimesso da Musharraf come ultimo atto della sua presidenza. L’oggetto della contesa fu il rifiuto della suprema corte di concedere una proroga costituzionale per un ulteriore mandato a Musharraf e la possibilità di vestire anche le stellette da generale.
Il tutto in un contesto nel quale solo negli ultimi 60 giorni ci sono stati più di ottanta morti in attentati dinamitardi; in cui il Pakistan è sotto la lente di ingrandimento dell’intelligence per gli attentati di Mumbai; in cui la pressione sulle truppe del contingente ISAF è sempre più forte.
Molti commentatori hanno visto in questa decisione di reintegro del presidente della corte una apertura democratica rilevante. Altri, invece, lo considerano un cedimento alla piazza e alla pressione esercitata dal blocco delle opposizioni guidato da Sharif. In entrambi i casi, però, è l’instabilità a dominare quale tratto preoccupante e caratteristico di un Pakistan sempre più vicino al baratro.