Nicolás Jouve, Professore di Genetica, è uno dei principali promotori del Manifesto di Madrid, un documento contrario alla riforma della legge sull’aborto che l’esecutivo socialista di José Luis Zapatero sta portando avanti. Al momento sono oltre mille le personalità del mondo scientifico che hanno aderito a questo appello e il Professor Jouve ce ne spiega l’importanza.



Il documento, che è stato presentato martedì, ha già superato mille adesioni da parte di persone di reputata autorità intellettuale. A cosa si deve questo successo?

È evidente che il tema preoccupa molte persone. Non è certo che la società voglia una nuova legge sull’aborto. Questo ha provocato una reazione e una certa inquietudine su alcuni aspetti di una riforma che, non essendo una necessità sociale, risulta strana nei dettagli annunciati dal Ministro dell’Uguaglianza. Aspetti come quelli di definire fondamentalisti coloro che si oppongono a una riforma che porta a una legge più radicale e permissiva, la prevedibile negazione dell’obiezione di coscienza, l’apertura a un aborto senza ragioni particolari fino a 14 settimane o il fatto che le ragazze di 16-17 anni possono abortire senza l’appoggio o il consenso dei genitori sono molto determinanti in questa reazione.



Nel manifesto si afferma che esistono molte prove scientifiche del fatto che la vita incomincia nel momento della fecondazione. Si chiede però una corretta interpretazione dei dati della scienza in relazione alla vita in tutte le sue tappe. Perché?

È fondamentale aver chiaro che la vita ha un percorso, un inizio e una fine. L’inizio corrisponde al momento in cui ha origine lo zigoto, che è la prima realtà corporale umana, che possiede una’informazione genetica propria e distinta da quella della madre e che dipende da essa per la sua sopravvivenza. Esiste ancora la credenza che l’embrione e il feto sono parte della madre, come fosse qualcosa che si può estirpare senza preoccuparsene. I dati della genetica, della biologia cellulare e dell’embriologia ci dimostrano però l’individualità dell’essere che cresce nel grembo della madre senza soluzione di continuità dal momento della fecondazione. La società deve sapere questo, per giudicare con cognizione di causa la trascendenza di un atto così crudele come quello di troncare lo sviluppo di una vita umana. Pertanto, la parte iniziale del manifesto vuol far conoscere alla società i dati della scienza su questo estremo della vita.



Il testo ironizza sugli eufemismi come Ivg (Interruzione volontaria della gravidanza). Sembra che parlando della vita sia difficile chiamare le cose con il proprio nome…

I politici tendono a risolvere molte questioni di indole discutibile utilizzando eufemismi, superficialità e terminologia alternativa. L’interruzione volontaria della gravidanza è un chiaro esempio di come nascondere o sminuire la trascendenza morale dell’aborto, che non è altro che la soppressione volontaria della vita di un figlio. Il fatto è ciò che conta e con la terminologia Ivg sembra restringere la sua trascendenza, dato che non è esattamente qualcosa che si interrompe e che può essere riattivato dopo. È invece qualcosa che si taglia irreversibilmente, in modo volontario. Ciò che l’interruzione di una gravidanza nasconde è che ciò che succede in realtà è che viene eliminata una vita in gestazione.

Cosa pensa dei lavori della sottocommissione sull’aborto presentati alla Camera? 

Se si dovesse giudicare solamente quello che è arrivato sui media non potrei dire quasi nulla, oppure ripetere gli slogan interessati che intenzionalmente sono arrivati alla stampa. È stata messa la sordina, e a un ritmo molto accelerato per evitare che arrivassero all’opinione pubblica, a molte delle questioni poste da voci molto autorevoli di ginecologi, medici di altra specialità, giuristi e testimonianze di madri pentite di aver abortito, che così non sono state rese note. È stata una sottocommissione parziale, pretederminata e sorda a quello che non voleva prendere in considerazione. In nessun modo le conclusioni della sottocommisione rappresentano un’opinione pubblica generalizzata e tanto meno un’opinione pubblica qualificata.

Nelle conclusioni sociali viene messo in rilievo che l’aborto è una tragedia di cui le donne dovrebbero conoscere le conseguenze psicologiche. Si parla anche dell’irresponsabilità e della violenza che presuppone che una giovane di 16 anni decida da sola. Si stanno nascondendo queste spiegazioni? Con che proposito?

Il consenso informato è una pratica obbligatoria fin dalla Dichiarazione dei diritti umani e dal Trattato di Helsinki. Se l’aborto è un intervento medico che presuppone niente meno che la morte di un essere umano che non nascerà occorre spiegare bene alla persona che lo compirà le modalità e le conseguenze. Diciamo che nell’aborto ci sono due vittime, il bambino che non arriva a nascere e la madre, che soffrirà ogni giorno le conseguenze di un atto crudele niente meno che contro la vita del proprio figlio. Il quadro psicopatologico conosciuto come “sindrome post-aborto” è qualcosa che non si dice alle donne che praticano l’aborto. La sua conoscenza è un obbligo morale che non vediamo nelle conclusioni della sottocommissione, anche quando ne hanno parlato gli specialisti che sono comparsi in Parlamento. È evidente che l’aborto è particolarmente duro per una ragazza di 16-17 anni e che si vuole privare della presenza, del consiglio e dell’appoggio dei propri genitori nel prendere la decisione di continuare la gravidanza o di abortire. Mettere una giovane nella situazione di dover decidere da sola a un’eta così prematura è un’irresponsabilità e una chiara forma di violenza contro la donna.