Il Segretario di Stato Hillary Clinton in Medio oriente dice in modo chiaro che è ineludibile «lavorare per una soluzione di due Stati», Israele e Stato palestinese. La partita da giocare però è ancora lunga, e i 4,5 miliardi stanziati per la ricostruzione di Gaza non sono certo la soluzione. Mentre gli Usa si stanno muovendo a tutto campo, Israele dovrebbe decidersi al più presto per una coalizione di governo ampia e moderata, possibilista verso la creazione di uno Stato palestinese. Le molte variabili di un quadro politico in evoluzione secondo Ennio Di Nolfo, docente emerito di Storia delle Relazioni internazionali nell’Università di Firenze.



Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha detto, nel corso della visita a Gerusalemme, che «lavorare per una soluzione di due Stati» è inevitabile e «ineludibile». Come giudica questa affermazione?

Sancisce la volontà di continuare sulla stessa linea politica di Bush – o meglio, di Condoleeza Rice – con una maggiore elasticità. Ricordiamo che Clinton alla conferenza per la ricostruzione di Gaza ha promesso da parte americana 900 milioni di dollari, a condizione che 600 siano destinati non alla ricostruzione di Gaza, ma della Cisgiordania. In questo modo ha introdotto nello scenario un elemento analogo a quello che Rice aveva sempre sostenuto: una forte e doverosa precondizione politica.



Un aiuto subordinato, in altre parole, a progressi effettivi nella volontà di trovare una soluzione al conflitto.

Il presupposto per la soluzione della crisi israeliano-palestinese è la ricomposizione di Al Fatah in un fronte unico, la fine delle ostilità o un compromesso tra Hamas e Al Fatah, il riconoscimento di Abu Mazen al posto di Ismail Haniyeh come primo ministro unico di Gaza, la riunificazione ovviamente non territoriale, ma politica tra Gaza e la Cisgiordania, e il principio dell’affermazione che esistono due Stati nella regione, quello israeliano e palestinese, come già nel 1947 avevano affermato le Nazioni Unite.



In che modo questo scenario fa i conti con la situazione politica interna israeliana, nel caso, per esempio, di un governo di Netanyahu?

A me pare che Clinton abbia portato un messaggio chiaro in proposito: non siamo contrari alla formazione di un governo guidato da Netanyahu, a condizione che sia un governo di coalizione con Kadima e con i laburisti di Barak e che escluda Liberman. A meno che quest’ultimo non ritorni su tutte le dichiarazioni che ha fatto fino ad ora contro l’esistenza di un’entità palestinese.

Quest’ipotesi escluderebbe quindi i due estremi, Hamas e Liberman.

Credo che sia l’ipotesi più percorribile. Niente vieta di immaginare che passati 42 giorni di incarico senza che Netanyahu riesca a raggiungere un risultato, si arrivi o alla ridesignazione di Tzipi Livni come primo ministro – ma questo metterebbe Netanyahu in una posizione insostenibile di fronte al suo partito – oppure a nuove elezioni. Che è un’ipotesi da non trascurare del tutto, data l’incertezza e l’impossibilità di governare seriamente senza un governo di unità nazionale.

Qual è il suo bilancio della conferenza internazionale voluta da Mubarak?

Il vertice di Sharm el-Sheikh ha promesso una quantità enorme di denaro ma con una serie di condizionamenti. Per esempio l’Italia ha promesso 100 milioni di dollari dilazionati in quattro rate. È una doverosa cautela, che significa: stiamo a vedere cosa succede dopo di che tiriamo fuori i soldi. I Paesi arabi del Golfo sono quelli che danno più soldi di tutti e per questo cercheranno di far valere di più la loro posizione, ma essa è uguale a quella di Mubarak e Mubarak segue da vicino la posizione americana. Si riparte dunque dal processo di Annapolis.

I finanziamenti per la ricostruzione di Gaza, però, non possono far dimenticare che Hamas ha risposto al vertice con il lancio di altri razzi su Israele; e che dalla conclusione delle ultime ostilità manca ancora tra Hamas e Israele una tregua concordata.

Tutto dipende da come gli Stati Uniti sapranno rielaborare la loro politica mediorientale, basandosi sui punti di forza che hanno a disposizione e che potrebbero essere risolutivi. Nell’area gli Usa hanno quattro capisaldi: la Turchia, che sta svolgendo un ruolo cauto, sotterraneo ma costruttivo; l’Egitto, che è dominato dal problema della successione di Mubarak e per questo non può sottrarsi alla volontà americana; il Pakistan, che dopo il recente attentato non può permettersi di veder precipitare la situazione ed è costretto a legarsi agli Usa; e Israele. Resta l’incognita iraniana. Su questa si gioca tutto il resto e verrà sciolta o al G8 di Trieste o nei prossimi mesi, con le elezioni iraniane.

Hillary Clinton ha anche riaperto i canali con la Siria. A chi conviene?

La Siria ha bisogno di ottenere la restituzione delle Alture del Golan, che sono fondamentali per la sua sicurezza, deve risolvere il problema interno dato dalla molteplicità dei soggetti politici che dominano la vita siriana, dove la setta degli alawiti è minoritaria ma comporta un problema di equilibri interni. Nella parte settentrionale dell’area c’è una situazione in movimento. Bisognerà capire fino a che punto Hezbollah è condizionato dall’Iran o fino a che punto può essere “recuperato”, in modo analogo a quello che si può tentare con Hamas.

Che cosa può garantire una svolta?

La capacità dei due governi di ricomporsi: quello israeliano, che attualmente non esiste che come governo Olmert, e quello di Abu Mazen se sarà capace di raccogliere in qualche modo dietro di sé, con qualche compromesso, Hamas.