I manifestanti filotalebani che ieri hanno scagliato sassi contro le dimostranti afghane al grido di “morte alle schiave dei cristiani” hanno in fondo reso un servizio alla religione che intendevano denigrare. Anche se il corteo femminile – che protestava contro la legalizzazione degli stupri coniugali, frutto di una legge firmata di recente dal presidente Karzai – era stato convocato dagli attivisti per i diritti umani, gli oppositori ne hanno attribuito mandanti e ragioni al cristianesimo, identificato tout court con l’Occidente democratico.
E forse, senza volerlo, hanno in fondo colto una parte di verità – per quanto strano possa sembrarci. Per la nostra cultura, cortei simili sono decisamente lontani dalla prospettiva religiosa: in effetti, nella recente storia occidentale, le manifestazioni femminili e femministe si sono piuttosto contraddistinte per il loro messaggio di rottura rispetto al cristianesimo in generale, considerato una forza conservatrice. Nella prospettiva di un certo femminismo, tradizione cattolica e emancipazione viaggiano su due binari differenti: la prima, legittimazione dell’oppressione patriarcale; la seconda, risultato della lotta contro la stessa oppressione. A dare man forte alla divaricazione tra diritti della donna e religione cristiana sono arrivate, negli anni, le stesse organizzazioni internazionali cosiddette umanitarie. Come hanno mostrato bene Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia nel loro libro “Contro il cristianesimo”, dalle parti dell’ONU, e della stessa Unione Europea, il mantra dei diritti umani è risuonato spesso in aperta contrapposizione ai principi cristiani. Per esempio, a proposito della libertà religiosa – ammessa solo per invitare a disfarsi della religione stessa -; della procreazione – vista meramente nell’ottica del controllo delle nascite – persino della famiglia – istituzione da smantellare in quanto responsabile della subordinazione delle donne. A questo punto, femministe e burocrati si sono dati il braccio in nome di una presunta libertà femminile: libertà di non credere, di non fare figli, di non amare.
Ci hanno pensato i filotalebani a restituire al cristianesimo l’identità originaria di strumento di liberazione. Mentre le femministe degli anni ’70 rinnegavano in maggioranza l’istanza religiosa, le loro epigone afghane di oggi vengono insultate nel nome della stessa istanza. Per quanto, in entrambi i casi, questa istanza sia stata chiamata in causa a prescindere dal suo ruolo effettivo, è paradossalmente nella bocca dei fondamentalisti di oggi, di estrazione islamica, e non in quella delle emancipazioniste di allora, di estrazione cristiana, che il richiamo suona più a proposito. Invece di contestare l’ONU o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, con tutti i loro principi umanitari e la loro libertà, i filotalebani se la sono presa con il padre di tutte le oppressioni, con il cristianesimo: reo di prescrivere l’amore al posto della violenza, di ispirare il rispetto per ogni persona – in particolare le più deboli, di riservare una speranza anche a chi crede di averle smarrite ormai tutte. Per difendere un modello di famiglia fondato sull’annullamento della donna, se la sono presa proprio con quel cristianesimo che secondo i suoi detrattori subordinerebbe le donne attraverso la famiglia: guardando evidentemente ai fatti, che raccontano di una realtà diversa, più che alle ideologie. Un dato sul quale gli organismi sovranazionali e i movimenti femminili dovrebbero forse riflettere, chiedendosi se tra la libertà senza amore e la violenza senza amore le donne non possano scegliere una via diversa: quella dell’amore che dà la libertà, anche dalla violenza.