Daniel Philpott è professore all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, salita alle cronache in questi giorni per le contestazioni al presidente Obama. In questo articolo Philpott descrive un altro aspetto di quella giornata, completamente oscurato dai media.
Da quando l’Università di Notre Dame ha annunciato il presidente Obama come oratore ufficiale alla cerimonia di consegna dei diplomi, si è scatenato un gran bailamme che, temo, pochi riusciranno a comprendere. La maggior visibilità sui media è stata data ai manifestanti che all’entrata dell’università brandivano cartelli con feti abortiti, megafoni e via dicendo, poi arrestati per essere entrati abusivamente, in quanto estranei all’università, nella proprietà di Notre Dame.
Nel vederli, ho capito perché a volte la gente pensa che gli antiabortisti siano persone meschine e irragionevoli, in quanto costoro sembrano non aver alcuna fiducia in uno dei migliori strumenti del movimento per la vita: gli argomenti. Praticamente tutti quelli pro-life che conosco nel campus pensano che questi contestatori finiscono per danneggiare la causa e nessuno parteggia per loro. Ciò che temo non si saprà, è che in realtà ci sono stati due tipi di contestatori, questa gente venuta da fuori e un gruppo costituito da studenti di Notre Dame che ha organizzato manifestazioni ben diverse, come quella straordinaria di domenica.
Io non sono andato alla cerimonia dove ha parlato il presidente Obama, per la semplice ragione che non sono stato estratto nella lotteria di assegnazione dei biglietti. Così, dopo la cerimonia di laurea alla facoltà di Scienze politiche, mi sono diretto verso il piazzale sud dove, sotto un bellissimo cielo blu, con il sole e una temperatura gradevole, si è tenuta la contromanifestazione dal punto di vista pro-life agli avvenimenti della giornata. L’evento è stato organizzato dal secondo gruppo che ho descritto, studenti di Notre Dame autorizzati dall’amministrazione dell’università, cui bisogna dar merito per questo.
È stata una delle cose più belle cui abbia partecipato. Nel piazzale sud dell’Università si erano radunate circa 2000 persone per assistere alla Messa, pregare, cantare, ascoltare discorsi e testimonianze, e applaudire, in un’atmosfera gioiosa, da festa. La stima è basata sul fatto che i preti che hanno celebrato la Messa mi hanno detto di aver distribuito 1700 ostie, e c’erano almeno un paio di centinaia di bambini che non hanno ricevuto la Comunione. Invece, The New York Times ha scritto che c’erano solo alcune centinaia di persone.
In base a tutto quanto ho letto sul movimento dei diritti civili, non posso fare a meno di chiedermi se questo non sia qualcosa di simile. Ciò che lì volevamo ricordare e mettere in discussione è l’esclusione di un’intera fascia di esseri umani dal diritto più fondamentale che esista, la più grande violazione dei diritti umani oggi nel mondo, l’oppressione dei più vulnerabili, silenziosi e poveri tra noi, un tetro caso di oppressione del più forte sul più debole, l’uccisione di più di un milione di persone innocenti in America e molti milioni nel mondo, un’ingiustizia senza dubbio comparabile alla schiavitù o alla negazione dei diritti civili agli afroamericani. Non è forse questo il movimento per i diritti civili dei nostri giorni?
Gli oratori al raduno hanno parlato di questa ingiustizia con insolita eloquenza e passione, forse ancor più di quella usata dal presidente Obama. L’australiano Padre Bill Miscamble ha aperto la manifestazione con un’oratoria travolgente, seguito dalla commovente testimonianza di una donna, laureata a Notre Dame dieci anni fa, ragazza madre il cui fidanzato voleva che abortisse e che aveva la sua bambina di nove anni con lei sul palco. Tra gli oratori che si sono susseguiti, forse uno dei più emozionanti è stato un prete cattolico nero della Louisiana, Padre John Raphael, che ha paragonato il movimento per la difesa dei diritti del non nato a quello dei diritti civili, con toni da predicatore nero (è cresciuto come battista nel sud) con la folla in piedi che applaudiva.
Tutti discorsi pieni di passione, ma anche di carità e di amore per l’Università, che avrebbero superato l’esame di tolleranza descritto di lì a poco da Obama nel suo discorso. Mi auguro che vengano tutti messi a disposizione su Internet, così da poter essere apprezzati da molti altri. Durante l’ultimo discorso, i professori presenti sono stati invitati a venire ai piedi del palco: l’ho fatto con orgoglio, insieme ad altri circa venticinque colleghi.
Tornato a casa, ho letto su Internet il discorso di Obama, che merita il massimo dei voti per oratoria e capacità di adattarsi alle circostanze e alla cultura locale. Il passaggio migliore è stato quello sulla necessità di evitare la demonizzazione dell’altro nei dibattiti, su cui posso concordare senza problemi, ma sulla qualità degli argomenti temo di non potergli dare la sufficienza.
La sera stessa, in un blog sul sito della rivista America,non certamente nemica di Obama, il suo discorso veniva definito un peana al relativismo: poiché non possiamo risolvere le nostre differenze, impariamo a discuterne. Questo è molto importante, certamente, ma Signor Presidente, lei dimentica un piccolo particolare: la giustizia. I leader dei grandi movimenti per la giustizia, Martin Luther King, Gandhi, Lincoln, le suffragette del diciannovesimo secolo, erano tolleranti e ragionevoli, ma non si fermavano alla semplice discussione delle differenze. Domandavano un cambiamento, la fine delle esclusioni ingiuste.
Obama ha parlato di movimento per i diritti civili, e ne aveva tutto il diritto. Anch’io, come ogni americano, nella notte della sua elezione ero emozionato al pensiero di quanto fossero avanzate le relazioni razziali nel nostro paese. Ed è qui la grande ironia, perché proprio lui si è impegnato a sostenere leggi che escludono un’intera categoria di persone dal diritto di vivere. Qualcuno riesce a immaginare un Martin Luther King che dicesse che, dato il completo disaccordo sulle nostre differenze, la cosa importante è imparare a discuterne e questo basta? No, lui disse: ho un sogno, e domandò giustizia per gli esclusi.
L’argomentazione di Obama è molto simile a quella che Douglas oppose a Lincoln nei famosi dibattiti del 1858: si tratta di una questione morale e religiosa che non può essere risolta, nessuno chiede di approvare la schiavitù, solo si lascino decidere gli stati per loro conto, etc. Obama ha indicato anche una serie di misure per ridurre il numero degli aborti, a mio parere piuttosto deboli e vaghe. Se non lo saranno, benissimo.
Stiamo a vedere, ma Obama ha evitato di affrontare la vera questione. Se i bambini non nati sono persone, le leggi che ne permettono l’uccisione non sono allora radicalmente ingiuste? E se non sono persone, cosa sono allora? Se non sono persone, perché impegnarsi per ridurre il numero degli aborti? Perché darsi da fare per proteggere un semplice ammasso di cellule o di carne?
Sono poi andato a vedere i siti dei maggiori mezzi di informazione, The New York Times, The Washington Post, CNN, etc., arrabbiandomi nel constatare che avevano fatto proprio ciò che mi aspettavo da loro: mostrare Obama col suo appello al possibile terreno d’intesa, insieme ai contestatori provenienti da fuori. Il raduno al quale ho partecipato è stato quasi del tutto ignorato, anche dal giornale locale, The South Bend Tribune, che gli ha dedicato una cronaca striminzita, corredata dalla foto dei contestatori! Chi si oppone all’aborto con la ragione ha molte difficoltà a farsi sentire in questo paese.
Durante la Messa della mattina, ho sentito un rombo nel cielo e ho visto scendere per l’atterraggio un gigantesco aereo: l’Air Force One. Non ho potuto fare a meno di pensare che ciò che stavamo facendo era dire al potere la verità.
(Daniel Philpott)