Domenica scorsa la coalizione “14 marzo”, composta dalle forze politiche filo occidentali che fanno capo al leader sunnita Saad Hariri, ha riportato un’inaspettata vittoria elettorale sulla coalizione antagonista, che vede l’alleanza del generale Michel Aoun con i partiti sciiti di Amal e Hezbollah. Un’importante vittoria di Washington su Teheran – hanno detto tutti i commentatori – , principale sponsor del “partito di Dio” Hezbollah. Ora però sarà molto difficile per Hariri trovare un accordo con l’opposizione e formare un governo. A sostenerlo è Camille Eid, giornalista libanese del quotidiano Avvenire. Il difficile compito dei cristiani in un paese che esce da quindici anni di occupazione siriana.



Camille Eid, qual è il Libano che ci consegnano le elezioni politiche di domenica?

Ha vinto, contro ogni pronostico, la coalizione di Hariri, ma ora c’è il rischio di una paralisi istituzionale. Si tratta di capire a chi andrà il governo e come si comporterà chi avrà diritto di veto. Le posizioni espresse ieri dal leader di Hezbollah smorzano un po’ i toni molto accesi che abbiamo sentito in campagna elettorale, è l’auspicio è che i libanesi facciano tesoro dell’esperienza precedente, quando hanno toccato con mano cosa vuol dire l’ingovernabilità.



Cosa è cambiato rispetto a prima?

In termini di seggi non è cambiato niente: prima la maggioranza aveva 71 seggi, ora ha 71 seggi. Ma gli equilibri appaiono ridefiniti e sappiamo quanto contano realmente le forze in campo. Questo è il vero risultato delle elezioni. Ora c’è una legittimazione: prima l’opposizione chiamava la maggioranza “maggioranza fittizia”. In effetti i pronostici davano all’opposizione – il polo formato da Hezbollah, Amal e il partito di Michel Aoun – 77 seggi, invece ne hanno avuti alla fine 20 in meno.

Perché i cristiani hanno preferito la Coalizione 14 marzo, dando la vittoria ad Hariri jr., Amin Gemayel e Samir Geagea.



Sì. Aoun e alleati erano sicurissimi di vincere. Poiché Hezbollah e Amal non potevano incrementare i loro seggi per motivi che attengono la distribuzione confessionale, speravano di spuntare la vittoria attraverso Aoun, che oltre a mantenere il suo peso nei distretti cristiani, doveva estendere il suo peso in nuove circoscrizioni. Cosa che non è avvenuta. Il risultato è che Aoun non ha più l’esclusiva rappresentanza dell’elettorato cristiano, che si è distribuito tra il suo partito e la formazione di Hariri, riqualificando la maggioranza che ha vinto le elezioni.

Ora quale scenario vede possibile?

C’è un primo banco di prova: l’elezione del presidente del parlamento. Nel 2005 i partiti della maggioranza accettarono che a fare il presidente fosse Nabih Berri (guida del movimento sciita Amal, ndr.), ma proprio Berri ha bloccato i lavori del parlamento per due anni. Ora si tratta di capire cosa vorranno Amal e Hezbollah. Faranno eleggere uno di tre sciiti che sono finiti nelle file della maggioranza, facendo un gesto di inimicizia e provocazione e assicurandosi che il parlamento funzionerà secondo il loro volere, oppure tenderanno la mano e rinunceranno ad esprimere la presidenza? Staremo a vedere. I libanesi hanno sempre mostrato grandi capacità di mediazione.

I cristiani sono divisi nelle due coalizioni, quella filo-occidentale del 14 marzo e quella del generale Aoun, alleato di Hezbollah. Questa diversità è una ricchezza o uno svantaggio?

È una ricchezza finché non provoca tensioni drammatiche, com’è accaduto negli anni ’89-’90 quando sono arrivati anche alle armi. Non sono abituati a seguire un’unica testa, proprio come gli sciiti seguono Amal e Hezbollah o il 90 per cento dei sunniti seguono Hariri. I cristiani sono sempre stati pluralisti perché non sopportano la “dittatura” politica del capo unico. È una ricchezza ma deve avere anche le sue regole, e la prima è che non può diventare la pretesa di rappresentare tutti: Aoun nel 2005 rappresentava il 70 per cento dell’elettorato cristiano e accusava gli altri partiti cristiani di fare da appendice di Hariri o di Walid Jumblat (il leader druso alleato di Hariri, ndr.), ma il risultato elettorale ora non lo mette più in condizione di farlo.

Questa divisione non rende meno incisiva la loro azione politica?

Forse è vero che così gli altri partiti cristiani finiscono per essere un po’ appendici di blocchi non cristiani, ma si tratta di capire qual è la vera posta in gioco per il Libano. Se vogliamo costruire la coesione nazionale, lo strumento più adeguato è costruire blocchi misti o fare partiti monoblocco di tipo confessionale? Ci sono gruppi interamente cristiani, come i falangisti di Gemayel, ma valgono 5 o 6 deputati e non hanno da soli il peso che dà loro una coalizione multiconfessionale più ampia.

Il Libano è da sempre considerato uno scenario in cui si giocano interessi più grandi, che coinvolgono i rapporti tra Usa e occidente con Israele e mondo arabo. Questo porta ad una visione distorta dei veri problemi del paese?

In una certa misura è inevitabile, perché il Libano è parte in causa nella questione arabo israeliana e non possiamo non subirne i contraccolpi. Ma non possiamo nemmeno diventare l’esclusivo palcoscenico delle tensioni tra Siria e Israele e del braccio di ferro tra Iran e Usa. Il Libano è ambito ed è diventata un’abitudine pensare al Libano non come ad uno stato indipendente e sovrano, ma come ad un’appendice di altrui interessi.

Cosa occorre perché questo non accada?

Fino a che punto le confessioni, con la loro “impermeabilità”, permettono a queste influenze esterne di usarle in modo strumentale, l’Iran la comunità sciita, l’Egitto o l’Arabia Saudita la comunità sunnita? La soluzione dipende dalla risposta a questa domanda. Che vale naturalmente anche per i cristiani.

L’assetto istituzionale dà pari diritti e rappresentatività a tutte le confessioni. Questo aiuta?

È l’unico stato arabo in cui vige un sistema di questo tipo anche per i cristiani. Il rischio insito in questo sistema è di concepirlo come un mix di fazioni in cui ogni fazione vuole portare l’altra dalla propria parte o verso interessi estranei al bene della nazione. Noi vogliamo essere buoni con tutti, anche con Siria e Iran. Non vogliamo certamente trasformare il Libano in un satellite o in un’appendice degli interessi iraniani.

E il Libano è ora in grado di reggere questa sfida?

Le ultime prove attraversate dimostrano che i libanesi sono facili prede di interessi esterni transitori, però sono capaci di risollevarsi, e scoprono sempre l’utilità di raggiungere un compromesso. Pensiamo alla guerra del 2006 e alla crisi politica che le è succeduta: eravamo ridotti ad un paese senza istituzioni. Dopo 15 anni di guerra civile (1975-1990, ndr.) e 15 anni di occupazione siriana, finita nel 2005, il Libano non più tornare in salute in tre anni. La ricostruzione sarà lunga e per questo occorre pazienza.

Il paese rimarrà sempre al centro di interessi contrapposti?

Il ruolo del Libano non può essere quello di un’alleanza di minoranza, tra sciiti, alauiti e cristiani, o diretta contro una maggioranza sunnita che governa il mondo arabo, se no diventiamo noi stessi ostili all’ambiente in cui viviamo. La vocazione del Libano è quella di essere un seme di concordia e di pace. Esattamente come sono i cristiani nei paesi libanesi: i centri abitati sono tutti cristiano-sunniti, o cristiano-sciiti o cristiano-drusi, perché sunniti, drusi o sciiti senza i cristiani non riuscirebbero a convivere.