L’Iran non è solo Teheran. Al di là della capitale c’è un immenso Paese esteso su oltre un milione e 643 mila chilometri quadri con 66 milioni di abitanti (molto pochi dunque rispetto al territorio), che vivono per lo più in piccole città e villaggi isolati. La struttura sociale di Teheran, con il suo vasto ceto medio di cultura e di gusti occidentalizzanti, ha solo scarsi riscontri nel resto dell’Iran.
Il prodotto interno lordo pro capite annuo nel 2008 era pari a 12.300 dollari, circa il 25 per cento in più rispetto al 2007, grazie ovviamente all’impennata dei prezzi degli idrocarburi verificatasi in tale periodo. Anche se la successiva caduta di tali prezzi avrà senza dubbio una forte incidenza sul dato relativo al 2009, l’Iran è e continuerà ad essere il più sviluppato fra i maggiori Paesi della vasta regione vicino e mediorientale compresa tra l’Egitto e il Pakistan.
Ogni commento sulla contestata rielezione del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad – che l’altro ieri avrebbe ottenuto il 62,6 per cento dei suffragi contro il 33,8 del suo principale antagonista, Mir Hossein Mousavi – va collocato su tale sfondo, che potrebbe poi venire ulteriormente arricchito di analoghi dati. Ciò che accade insomma a Teheran, comprese le drammatiche manifestazioni di protesta come quelle in corso mentre scriviamo, e tanto più quel che dicono gli intellettuali e i politici iraniani rifugiatisi all’estero, pur essendo elementi di cui tenere attento conto, non bastano a definire il quadro. Nella misura in cui è in gioco l’eventuale prossima ventura arma nucleare iraniana, anche se avesse vinto il “moderato” Mousavi (come la grande stampa internazionale ci aveva fatto sperare) non sarebbe cambiato nulla. Anche Mousavi infatti è d’accordo sul fatto che l’Iran debba procedere nei suoi programmi di arricchimento dell’uranio ufficialmente orientati a fini pacifici, ma grazie ai quali potrebbe anche giungere a disporre di ordigni nucleari.
D’altra parte, come è noto, in Iran i partiti e le loro liste elettorali sono soggetti al controllo preliminare di una struttura di potere teocratico, espressione dei dottori della dottrina coranica nella sua versione sciita, noti in Occidente con il nome generico di hayatollah ed eredi della rivoluzione khomeinista. Agli elettori non è dunque consentita altra scelta se non quella tra due leader e tra due linee, una più radicale e l’altra meno radicale, che restano comunque nell’orizzonte politico del khomeinismo. Come dimostrò il caso del predecessore di Ahmadinejad, il “moderato” Mohammad Khatami (al governo dal 1997 al 2005), tra moderati e intransigenti cambiano insomma i modi ma non la sostanza.
Venendo al caso delle recenti elezioni, è molto probabile che brogli e intimidazioni abbiano fatto la loro parte. La distanza però tra i due candidati è così notevole che risulta difficile credere sia frutto soltanto di brogli. Nelle sterminate regioni rurali dell’Iran, Ahmadinejad ha raccolto diffusi consensi con una politica di opere pubbliche relativamente poco costose e di immediata visibilità (nuovi edifici scolastici, ponti, ambulatori) che fa venire in mente quanto analogamente fece in Italia Mussolini negli anni ’30. In un Paese poi che appunto assomiglia per vari aspetti all’Italia degli anni ’30 del secolo scorso, non si deve credere che il nazionalismo aggressivo di Ahmadinejad non trovi apprezzamenti anche in settori del ceto medio, della pubblica amministrazione, delle grandi aziende di Stato. Mutatis mutandis parecchi suoi discorsi fanno venire alla memoria i mussoliniani “Molti nemici, molto onore” e “Siano stramaledetti gli inglesi”.
Tutto ciò detto, a mio avviso non conta molto se a Teheran sia al governo Ahmadinejad o Mousavi. Conta piuttosto la realtà dei fatti di un Paese che ha bisogno dell’apporto di tecnologie e di macchinari occidentali anche di più di quanto l’Occidente abbia bisogno del suo petrolio. Sulla base di questa interdipendenza economica si può impostare uno scambio orientato a condizionarne il nazionalismo aggressivo nonché a creare condizioni che favoriscano un influsso culturale nel senso delle libertà civili, dei diritti umani e quindi della democrazia reale. In quanto poi alla temuta “bomba iraniana”, a mio avviso essa è in fin dei conti una tigre di carta, ma di questo parleremo un’altra volta.