Toni Capuozzo, vice direttore del Tg5, sulla rivolta che a Teheran sta portando in piazza migliaia di persone contro i brogli che avrebbero dato la vittoria elettorale al presidente uscente Ahmadinejad. «Stiamo assistendo ad una vera e propria guerra civile – dice Capuozzo – ma questo rende tutto molto più imprevedibile e dall’esito incerto. Esso può dipendere molto dal tempo che impiega la base di consenso della dittatura a sgretolarsi. E non è detto che questo avvenga». Intanto, la repressione continua.



Alla luce degli ultimi fatti noti, il movimento popolare di contestazione del regime ha qualche probabilità di successo?

È difficile da lontano dare una valutazione, ma ci sono comunque alcuni elementi su cui ragionare.

Il primo è che sembrava non esserci una leadership autentica, perché tutti i candidati che si opponevano ad Ahmadinejad in realtà erano e sono parte dell’aristocrazia politica iraniana; ma il movimento pare in grado di cambiare i suoi stessi leader, colmando i vuoti di leadership. Non è però una garanzia di vittoria.



La repressione avrà l’effetto di rafforzarlo o di indebolirlo?

È il secondo punto della questione: il movimento continua nonostante una repressione sanguinosa. È un elemento di tenuta, anche se oppressori e oppressi si collocano tutti nel medesimo orizzonte di riferimento, che è quello del mondo sciita. E nel mondo sciita, anche tra i più laici, martirio e spirito di sacrificio sono elementi culturali molto forti. Quella dunque che potrebbe sembrare una tenuta “politica” del movimento, potrebbe anche essere una pura e semplice disponibilità al sacrificio. Non affrettiamoci, in altre parole, a vedervi una contestazione radicale dell’autocrazia sciita.



Ci sono timori che la repressione passi nelle mani dell’esercito.

Questo è una altro fattore dello scenario. Che l’esercito non sia ancora intervenuto può voler dire che bastano i baiji e i pasdaran, però può anche voler dire che si teme di farlo intervenire: nel ‘79 venne schierato contro i dimostranti ma poi passò dalla loro parte. Ed è in numero uguale ai pasdaran, anche se i pasdaran per fiducia politica hanno le armi strategiche. Staremo a vedere. E infine la composizione sociale della rivolta.

Vuole dire che Teheran costituisce un caso a sé, rispetto al resto dell’Iran?

Non abbiamo una dittatura fragile e arroccata e un popolo intero che si rivolta, ma una dittatura ancora dotata di una solida base sociale, a fronte della quale si è posto un popolo variegato per ceto e cultura. Assomiglia ad una vera e propria guerra civile, ma questo rende tutto molto più imprevedibile e dall’esito incerto. Esso può dipendere molto dal tempo che impiega la base di consenso della dittatura a sgretolarsi. E non è detto che questo avvenga.

È iniziato tutto con la contestazione dell’esito del voto. Poi, quando è saltato il coperchio, il mondo ha potuto vedere un Iran che forse non immaginava. Quanto è moderno l’Iran della contestazione e quanto questo fattore culturale può essere decisivo?

L’Iran è uno di quei paesi in cui il fondamentalismo prevale molto di più nell’aristocrazia politica che nel popolo. Diversamente dalle campagne, la capitale è un paese moderno, dove la cultura fondamentalista si ferma davanti alle porte di casa, ma dentro si svolge una vita assai più vicina al nostro modo di concepire di quel che pensiamo. Dell’Iran si diceva un tempo che il barometro di lettura, ancor più dei giovani o della classe media è il bazar, il ceto commerciale. E stavolta il bazar è schierato contro Ahmadinejad. Questo è senz’altro un elemento di speranza.