Urumqi, la capitale dello Xinjiang sembra ormai calma, dopo le manifestazioni e violenze dei giorni scorsi che hanno fatto 156 morti e oltre 800 feriti. Il ritorno del presidente Hu Jintao in Cina, abbandonando il G8 in Italia, ha permesso il dispiego di decine di migliaia di militari che si sono interposti fra zone uigure e di cinesi han, fermando almeno per ora gli scontri interetnici.



Il momento di maggior tensione finora è stato il 7 luglio, quando migliaia di cinesi han hanno attaccato case e negozi di uiguri, per farsi giustizia da soli delle violenze subite da altri cinesi Han nelle dimostrazioni uiguri della scorsa settimana, degenerate in attacchi contro negozi e incendi di auto della polizia. La popolazione uigura accusa la polizia di aver sparato su una folla pacifica di manifestanti, scatenando la reazione.



Oltre al dispiego dei militari, la calma viene mantenuta con le minacce. Li Zhi, segretario del Partito ad Urumqi, ha detto che chiederà la pena di morte per tutti coloro che hanno usato “mezzi crudeli” e assassinato persone, mettendo in crisi la convivenza fra han e uiguri. La pena di morte è molto usata nello Xinjiang contro il cosiddetto “terrorismo islamico” degli uiguri, un’espressione che permette a Pechino di usare una morsa di ferro per contenere le domande di autonomia e giustizia per gli uiguri, minoranza emarginata e perseguitata. Secondo organizzazioni internazionali, centinaia di condanne a morte sono comminate ogni anno contro gli uiguri.



Gli uiguri sono una etnia di origine turca, stanziata nel nord est della Cina da secoli. Pechino tenta la carta di colonizzare la regione spingendo alla migrazione i cinesi Han, affidando loro posti nella burocrazia, nel commercio, nelle banche e offrendo facilitazioni fiscali. La posizione dello Xinjiang, interfaccia con l’Asia centrale e i ricchi giacimenti di petrolio del Kazakistan, come pure la ricchezza di gas e petrolio del sottosuolo della regione, spingono la Cina a un controllo serrato e alla rivendicazione che essa è terra cinese, anche se dal 1911 al 1949 da parte degli uiguri vi è stato perfino il tentativo di dichiarare una Repubblica indipendente del “Turkestan Orientale”.

Questo nome è rimasto ai gruppi uiguri che combattono ancora per l’indipendenza dalla Cina (Movimento Islamico del Turkestan Orientale), e che nel recente passato hanno eseguito attentati contro sedi del Partito, a bus e discoteche in città come Urumqi, Wuhan e Pechino, facendo decine di morti. La Cina continua a rispondere con la repressione. Oltre alla colonizzazione Han, che rende minoritari gli uiguri nella loro terra (circa 9 milioni su circa 22 milioni), vi è una vera e propria occupazione militare dell’Esercito di Liberazione e una rete di spionaggio per il controllo di scuole, aziende, mercati.

Il controllo è divenuto ancora più asfissiante dopo l’11 settembre 2001. Il timore che Osama Bin Laden abbia dei seguaci anche fra gli uiguri ha spinto Pechino ad usare la mano pesante, stabilendo leggi speciali per la sicurezza e arresti a non finire. Per frenare l’ondata di fondamentalismo, nel 2001 la Cina ha pure fondato il gruppo “Organizzazione di Shanghai per la Sicurezza”, di cui fanno parte, oltre alla Cina, la Russia e i 5 paesi dell’Asia Centrale, anch’essi alle prese con il terrorismo islamico. Per sfruttare la ricchezza della regione, la Cina propone da anni una “Marcia verso il Far West” a investitori stranieri e cinesi, per soffocare nello sviluppo economico l’insorgere del terrorismo.

Nel 2008, in occasione delle Olimpiadi, Pechino ha messo sotto controllo speciale lo Xinjiang (e il Tibet) per timore di atti sovversivi. Nel gennaio 2008 la polizia ha assalito un campo di addestramento e ucciso 18 musulmani uiguri, dicendo che erano terroristi, ma senza provarlo. In maggio-giugno ha gridato al terrorismo, arrestando a Pechino una donna che aveva con sé una bottiglia molotov. Molte organizzazioni per i diritti umani accusano Pechino di nascondere dietro le accuse di terrorismo un progetto di epurazione degli uiguri usando metodi di guerriglia irrispettosi di qualunque diritto.

La “minaccia terrorista” giustifica un controllo serrato su imam e giovani. Ogni venerdì mattina, giorno sacro musulmano, gli imam vanno al locale Ufficio per gli affari religiosi per spiegare il testo del sermone che terranno e ricevere “indicazioni generali”. Ogni gruppo religioso deve essere registrato presso il comitato religioso nazionale e la nomina dei leader va approvata dalle autorità. È vietato dare un’educazione religiosa ai figli; fino a 18 anni è proibito frequentare le moschee; nel mese di Ramadan gli insegnanti obbligano gli studenti a rompere il digiuno; si registrano espropri e demolizioni di moschee e scuole islamiche per far posto alla modernizzazione.

In questi giorni Pechino continua a gridare al complotto straniero e punta il dito contro Rebiya Kadeer. Questa donna, 62 anni, è un’imprenditrice in origine membro del Partito, poi disillusa per aver cercato maggiore autonomia per gli uiguri. È stata arrestata nel 2000 per aver “svelato segreti di stato” non ben precisati. Nel 2005 ha ottenuto per motivi medici di abbandonare lo Xinjiang e rifugiarsi negli Stati Uniti. La sua famiglia rimasta in patria subisce continue pressioni e arresti. La Xinhua e il Partito la definiscono “corrotta”, impegnata con il “terrorismo internazionale”, il “separatismo” e le “forze estremiste”, desiderosa di “sabotare le attività per celebrare i 60 anni della fondazione della Repubblica popolare cinese quest’anno”, in ottobre.

Ma la tensione apertasi in questi giorni nello Xinjiang preoccupa la Cina non più solo come una questione fra il governo e la minoranza uiguri. In ballo vi è pure la scontentezza degli han e l’inquietudine di molte fasce della popolazione cinese a causa della corruzione, della crisi economica, del dissenso represso. La scintilla dello Xinjiang potrebbe saldarsi con altre situazioni di crisi in tutto il Paese. Non essendoci spazi per esprimere lamentele e reclamare diritti, tutto rischia di esplodere.