A nove mesi dalla vittoria elettorale i sondaggi lo danno in forte calo, ma Barack Obama rilancia la sfida e dice di voler realizzare la riforma sanitaria entro l’anno. Dove cinque presidenti prima di lui hanno fallito, il nuovo presidente democratico vuole dare l’assistenza sanitaria pubblica ai 46 milioni di americani che ne sono sprovvisti. L’ostacolo maggiore sono i costi, davvero esorbitanti: la legge che dovrà finanziare la riforma dovrebbe costare tra i 1000 e i 1500 miliardi di dollari. «Il primo, vero momento cruciale della presidenza – dice Vittorio Emanuele Parsi -. Un fallimento sarebbe un vulnus permanente nell’azione politica del nuovo presidente».



Obama ha detto che la riforma sanitaria si farà. Tuttavia i sondaggi lo danno in forte calo, proprio mentre si accinge a intraprendere la riforma più difficile di tutte. Ce la farà?

Siamo di fronte al primo, vero momento cruciale della sua presidenza. Se non riesce a “quadrare il cerchio”, rischia di avere un vulnus permanente nella sua azione politica. Qui si vede se è possibile far la politica che ha promesso di fare.



Sarà davvero così discriminante il risultato?

Sì, perché da un lato c’è un certo consenso sul fatto che un paese come gli Stati Uniti non possono non avere un sistema sanitario nazionale all’altezza. Dall’altro un sistema sanitario universale lascia perplessi gli americani: il fatto che chi ha di più paghi di più, in cambio di niente, non li convince. La tassazione come redistribuzione del reddito è lontana dalla mentalità americana.

Secondo lei il Congresso è disposto a seguire ovunque il presidente? Pare che anche esponenti democratici siano contrari.

Qui ci sono due problemi. Il primo è la paura del deficit. Una paura che tutti i sondaggi sono concordi nel mettere in cima alla lista delle preoccupazioni dei cittadini americani, di tutti e non solo di quelli delle classi più alte. È la preoccupazione di una tassazione ulteriore e permanente. E Obama dovrà dimostrare e convincere, carte alla mano, che il suo progetto di riforma renderà più efficace la copertura sanitaria di quella attuata per via privata, e meno costosa per lo stato.



Cosa che non sarà facile. E l’altro problema?

Il secondo riguarda da vicino che deve votare la riforma. Ora, Obama ha una forte maggioranza, sia al Senato che alla Camera. Questo vuol dire che ci sono senatori democratici e deputati democratici che hanno vinto in collegi tradizionalmente repubblicani. Essi sanno, quindi, che se si presentano tra un anno alle elezioni di mid-term con un programma di tasse e spesa, rischiano seriamente di non essere più rieletti. Il sistema elettorale americano, basato sul collegio uninominale, è molto diverso dal nostro. Se tu, democratico, vinci in un collegio conservatore esprimi un elettorato che ti ha votato anche se è conservatore, e quindi devi fare attenzione a come voterai, perché è possibile vedere come hai votato i singoli provvedimenti.

Hanno allarmato la Casa bianca alcuni sondaggi dei giorni scorsi che davano la disapprovazione del presidente al 41% e il consenso a circa il 55%, ben al di sotto dal 70% di gradimento di inizio mandato. L’“effetto Obama” è svanito?

Obama succede ad un presidente, George Bush, divenuto molto impopolare per le sue scelte, o meglio impopolare perché alle sue scelte non ha arriso il successo sperato. In campagna elettorale si è scontrato con un candidato nettamente più debole e ha fatto valere l’effetto di novità. Partendo così alto, era inevitabile che il suo gradimento scendesse. Ora i dati ci dicono che è il terzo peggior risultato di un presidente a 180 giorni dall’elezione.

E qual è la sua lettura di questo fatto?

La prima ragione è che sia in politica internazionale che in politica interna non tutti i risultati auspicati sono stati conseguiti. E poi un conto è essere candidato, un conto è essere presidente. L’“effetto Obama” è servito per arrivare alla vittoria, poi i giochi si riaprono. Perché per vincere le elezioni possono servire qualità che sono diverse da quelle che servono per governare. Essere candidato vuol dire convincere gli altri a sostenerti, mettersi sul mercato. Ma un presidente deve convincere l’amministrazione, la macchina burocratica, il Congresso, a lavorare nella direzione che indica. È ben diverso.

Toccherà alla riforma sanitaria ridimensionare il fenomeno Obama?

Su Barack Obama ha sempre aleggiato un grande dubbio: quest’uomo è il nuovo Ronald Reagan, l’uomo capace di dare una svolta alla storia americana, o è semplicemente un nuovo Jimmy Carter? Il rischio di un presidente eletto con grandi aspettative di rinnovamento e un grande sostegno popolare, ma che poi risulta poco incisivo, non va dimenticato. Dobbiamo naturalmente augurarci che non sia così, nell’interesse degli Stati Uniti e nostro.

Qual è ora per Obama il dossier internazionale più importante?

L’Afghanistan è attualmente il fronte in cui Obama può ottenere un buon successo. Mentre le possibilità di incidere sull’Iran sono pochissime, perché il regime sta involvendosi e nessuno può sapere come va a finire e quindi la partita sul nucleare è sospesa, l’Afghanistan invece è una partita aperta. Nonostante le apparenze è il fronte più facile, perché si tratta di moltiplicare delle risorse che si hanno e di vincere la campagna. Qui molto dipende dal presidente e dalla sua capacità di mobilitare il consenso interno, gli alleati e la macchina politico-militare americana.

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