Anche se il capo del governo israeliano, Netanyahu, ha finito per accettare la tesi dei due Stati, rimane un problema fondamentale per i palestinesi e gli Stati arabi in generale, vale a dire la precondizione richiesta dal leader israeliano: il riconoscimento di Israele come Stato ebraico. È di estrema rilevanza capire fino in fondo cosa questa definizione comporti e le conseguenze che ne possono derivare.
Non si può negare che Israele sia la maggiore democrazia nel Medio Oriente, forse l’unica, data la libertà di parola che garantisce e le molte possibilità di critica e di dialogo. Tuttavia, quando si autodefinisce come “Stato ebraico” sorgono diversi problemi, in primo luogo per i palestinesi, che in questa definizione vedono definitivamente preclusa ogni possibilità di discutere su un eventuale rientro dei profughi nei loro luoghi di origine. Tanto più che Netanyahu sembra, al contrario, avere intenzione di rafforzare gli insediamenti israeliani nei Territori.
La definizione in discussione pone soprattutto problemi gravi agli arabi che sono cittadini di Israele, circa il 20% della sua popolazione, e che rappresentano una minoranza spesso tra i due fuochi della appartenenza etnica e della cittadinanza. Talvolta si sente elogiare Israele per la sua generosità nell’aver accolto entro i suoi confini questi arabi, ma essi vivevano in queste terre da molto prima che vi fosse lo Stato di Israele, e ben 400 sono i villaggi arabi evacuati alla sua nascita. Senza contare gli arabi fuggiti dalle città più grandi, come Haifa, Nazareth e altre. Quindi si può considerare l’attribuzione della cittadinanza agli arabi che sono rimasti, o si sono trovati riallocati, dentro le frontiere di Israele come il minimo che si potesse fare per chi non aveva più una propria terra ed era rimasto seriamente danneggiato dalla situazione.
Non possiamo ridurre però il tutto ad una questione di bilancio tra danni e risarcimenti, perché il punto è che far parte di uno “Stato ebraico” è ben diverso che essere semplicemente cittadini dello Stato di Israele. È ben diverso dire che Israele è il paese degli ebrei e dire che è uno Stato ebraico: fondare la definizione dello Stato su base religiosa genera automaticamente barriere istituzionali, culturali e sociali per chi non condivide la religione posta alla base dello Stato.
Il problema è particolarmente sentito dagli arabi-israeliani, che si devono già ora confrontare con una crisi di identità per il fatto che la loro cultura non è quella della maggioranza. Tuttavia, coinvolge in prospettiva tutti gli stranieri che volessero diventare cittadini israeliani, perché rischierebbero di non riuscirci, a meno di convertirsi o di trovare qualche ascendente femminile ebreo. Il problema esisterebbe ovviamente anche per chi sposasse israeliani arabi.
In realtà, la distinzione tra ebrei e non ebrei già esiste. Gli arabi israeliani sono cittadini di Israele, pagano le tasse, contribuiscono all’economia, imparano l’ebraico e vanno alle università israeliane. Solo non fanno il servizio militare, e sarebbe paradossale il contrario, fino a che Israele è in guerra con i palestinesi. Nonostante tutto questo e i meritevoli sforzi di molti israeliani ebrei, vi sono parecchi casi in cui i cittadini arabi sono trattati come cittadini di “serie B”.
Ciò è evidente nell’area delle opportunità di lavoro e di carriera, o, ancor di più, nel comportamento dei soldati ai posti di controllo o negli aeroporti: a ogni israeliano arabo è capitato almeno una volta che gli venisse chiesto: “ Il tuo nome è insolito, che origine ha?”, sottintendendo ”Il tuo nome non è ebreo, sei arabo?”. Di solito, questa domanda comporta un paio d’ore di domande fastidiose, perquisizione del bagaglio e, a volte, della persona.
La complessità della società israeliana non è riducibile a una semplice definizione. Al fondo, il punto essenziale non è di contestare il diritto del popolo ebreo di avere una propria patria, ma di affermare il diritto degli altri che vivono in quella terra, di poter continuare a viverci con pari diritti e dignità.
(Marta Zaknoun)