Hillary Clinton ha un problema: gli amici del marito Bill. Forse non invadenti, ma certamente sempre presenti. Perché il network di “amici finanziatori” e sostenitori delle cause della William J. Clinton Foundation sono ovunque. Ricchi e potenti, sono industriali, non solo Usa, o vivono sotto le luci scintillanti di Hollywood.



Sono stati proprio questi contatti in gennaio a mettere in dubbio la nomina dell’ex first lady alla guida della diplomazia Usa. Barack Obama voleva che Bill facesse un passo indietro, che i suoi “link” con mezzo mondo non intralciassero il lavoro di Foggy Bottom. Un ex presidente “first husband” del segretario di Stato non è proprio il massimo se si vogliono evitare conflitti di interesse e incroci pericolosi. Soprattutto in una società, come quella americana, che della trasparenza ha fatto una bandiera.



Capita spesso che quando la signora della diplomazia Usa sia in missione le capiti di trovarsi seduta accanto a qualche magnate della finanza o dell’editoria o di altro che, guarda caso, è “amico” di Bill. Lo scorso mese Hillary era in India. Durante un meeting a Mumbai accanto a lei c’era Mukesh Ambani, tycoon indiano e generoso sponsor (ovvero 250mila dollari) della Fondazione del marito. Durante quell’incontro Ambani invocò una collaborazione stretta fra Usa e India per la produzione di energia pulita. La Fondazione Clinton è impegnata in un progetto per l’energia solare nel Gujarat. La signora Clinton si è limitata a ribadire che le relazioni sono buone e che la cooperazione prosegue. Ma i confini con il conflitto d’interessi (ciò che temeva Obama) sono sempre lì a due passi.



Ovunque si giri, Hillary trova Bill. E la sagoma dell’ingombrante e talvolta pasticcione marito (il suo ruolo nelle primarie è stato un disastro e per molti analisti una delle cause della sconfitta della moglie contro Obama), non la molla neanche quando se ne va, in missione, in Africa. Lei era a Nairobi a parlare di sviluppo, lui in Nord Corea a riportare a casa le due giornaliste americane arrestate e condannate a 12 anni di detenzione. La foto di Bill e Kim Jong-il è stata la “notizia” per due giorni, la missione di Hillary nel Continente africano ridotta a un trafiletto.

Bill fa ombra a Hillary. Anche se è stata lei a dare il suo assenso al viaggio del marito a Pyongyang. Anche se c’è il suo zampino nel successo della missione. Bill Clinton ha accettato il compito solo perché sapeva che sarebbe tornato con le due giornaliste. I dettagli con la controparte nordcoreana erano stati trattati dalla Casa Bianca e dalle feluche della diplomazia. Eppure la foto, i fiori, gli applausi sono tutti per Bill, il 42esimo presidente, amato quasi quanto Reagan ma caduto in una sorta di oblio negli otto anni di Bush.

Ora la risalita. Ma fino a dove? Fino a che punto potrà spingersi l’ex presidente? Farà il super inviato? La vicenda nordcoreana lascia intravvedere qualcosa di significativo. Sono state le autorità del regno eremita a gettare l’amo: “Se Bill Clinton viene a prendervi, vi lasciamo andare”, dissero alle due ragazze. La prima idea dell’Amministrazione era Al Gore, che è pure il datore di lavoro, con la sua Current Tv, delle due reporter. Oppure Bill Richardson, conoscitore della Nord Corea e già negoziatore. Pesi massimi entrambi. Ma non tanto come il Bill nazionale (o transnazionale). A questo punto in ogni crisi apparirà la faccia di Bill con quel sorriso da “eccomi tornato sulla scena”? Difficile, non improbabile però.

La missione di Clinton è stata umanitaria. Finanziata, eccezion fatta per gli agenti del Secret Service, con soldi privati (gli amici milionari di Bill). Con lui l’ex presidente aveva i fidati e intimi collaboratori, John Podesta suo capo dello staff in primis. E non aveva messaggi da parte dell’Amministrazione da dare ai nordcoreani. La Casa Bianca si è ben guardata dal vestire con i crismi dell’ufficialità il viaggio dell’ex uomo più potente del pianeta. Ma è chiaro che Obama e i suoi qualche impressione a Bill Clinton la chiederanno.

Nel colloquio con Kim Jong-il non si è parlato di nucleare, ma sembra strano che nelle tre ore che i due hanno trascorso insieme si siano limitati a parlare delle reporter e della vodka di cui il Caro leader va pazzo. Certo Bill Clinton è stato al gioco, da raffinato diplomatico, da animale dal fiuto politico sopraffino. La foto con Kim Jong-il è sin surreale. Il dittatore, figura grigia, corporatura minuta, allergico a ritratti e convenevoli, che sorride. Il “piacione” Bill, che davanti alle telecamere ha sempre trasudato allegria e vitalità, era invece rigido. Compassato. Ma non vinto, non battuto, non dimesso.

Kim Jong-il e Bill Clinton, il giorno e la notte, hanno vinto entrambi. Hanno avuto il loro premio. Il Caro leader si è liberato di un peso scomodo, le due reporter, e dettato le condizioni agli Usa. Clinton è tornato a essere il protagonista. L’Amministrazione Obama registra un piccolo ma significativo punto. Saprà qualcosa in più della Nord Corea e comunque ha protetto due cittadine Usa. Anche se Obama non può prendersi alcun merito. Perché ufficialmente ha fatto tutto Bill. Con i suoi amici ricchi e generosi. Grazie a un Boeing solo business class e a una cena di 1 ora e un quarto con Kim Jong-il. Forse non il massimo della compagnia. Ma un perfetto compagno per tornare alla ribalta. E ricordare a Obama che resta lui il più amato dagli americani.

Ora bisognerà gestirlo il Bill. Dosarlo con cautela. Di super inviati l’Amministrazione ne ha anche troppi. Un super inviato ex presidente sarebbe forse troppo. Sia per i rischi, sia per l’ombra che getterebbe su tutta l’Amministrazione. Ombra che finora è arrivata sulla povera Hillary che vaga per l’Africa. Non sola, nemmeno dimenticata, ma di certo i riflettori sono puntati altrove. Quelli sono di Bill. Come quasi ogni volta apre bocca, come quasi ogni volta tiene un discorso. Perché Bill è Bill. Il più amato dagli americani. Ricorda a tutti la crescita economica il benessere, le case di proprietà e i fondi pensione che corrono in su.

E poi Bill è un vincente, quando non vuole strafare. Anche se nel suo armadio ci sono pure i fallimenti, i fiaschi politici. Eppure quello più grosso ha un padrino, ops, una madrina. La riforma della sanità affondata nel 1993 era nota come Hillarycare. Pazienza se il presidente era Bill. A lui gli onori, a lei, la consorte, i guai.

La stampa ha ironizzato per anni. “Hillary è l’uomo forte della famiglia Clinton”. In realtà Hillary è straordinaria, forte, decisiva, preparata, competente e sempre in ascesa. Già, in ascesa. Per raggiungere la vetta. Dove, comodamente, se ne sta però seduto Bill. Che ormai è arrivato. Primo. Perché quando la partita conta, Bill vince, Hillary arriva seconda. Non è colpa sua, è quella strana e spesso genetica incapacità di cogliere l’attimo. Bill è il tempismo, Hillary un metronomo. Va sempre alla stessa velocità. Bill sa accelerare, piazzare lo scatto vincente. E fare ombra a tutti. Soprattutto alla sua signora.