Un nuovo capitolo nella saga di Aung San Suu Kyi. La leader birmana è stata condannata dalla giunta militare che governa il Paese ad altri 18 mesi di arresti domiciliari. Il pretesto è derivato dall’irruzione in casa sua, alcuni mesi fa, di un fanatico mormone americano (a lui hanno dato sette anni di lavori forzati) che, per portarle una Bibbia, violò le condizioni della reclusione. Queste, infatti, prevedevano il divieto di ricevere ospiti. A Suu Kyi la libertà è stata tolta ormai vent’anni fa. Quando, dopo che il suo partito – la Lega Nazionale per la Democrazia – il 27 maggio del ‘90 ottenne una maggioranza schiacciante all’assemblea costituente, il regime invalidò le elezioni e arrestò tutti i membri del suo movimento politico.
Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa a Pechino, spiega a ilsussidiario.net quale sorte toccherà all’eroina birmana e il quadro storico e politico all’interno del quale la vicenda si sviluppa.

Cosa ne sarà adesso di Suu Kyi e del prigioniero americano?

Per lei cambia poco, continueranno gli arresti domiciliari. La novità sta nel messaggio che il regime ha voluto inviare sul fronte esterno e interno: avvisa il mondo di non essere disposto a farsi mettere alle strette e gli oppositori interni che non tollererà rivolte.
Il prigioniero americano, invece, credo che sarà usato come elemento di scambio per aprire con l’America una sorta di trattativa, per ottenere alcuni riconoscimenti.


Come mai la dittatura, efferata ed estrema, non ha eliminato Suu Kyi?

Perché Suu Kyi è più pericolosa da morta che da viva. Paradossalmente è meglio tenerla in vita. Una volta morta potrebbero esserci tante persone disposte a raccogliere la sua bandiera.

Sembra che la Birmania sia lasciata in balia di se stessa e della giunta militare. È così?

La chiave del problema birmano è in Thailandia, il suo maggior partner commerciale e sostenitore politico. Nel Paese ci furono le elezioni. In seguito a queste, un colpo di stato militare, nel 2006, ha deposto il premier. I generali golpisti hanno indetto nuove elezioni, nel dicembre 2007, vinte da una formazione vicina al premier deposto. A quel punto, con una strana alleanza tra dimostrazioni di piazza incoraggiate dai generali, nuovi regolamenti burocratici, interventi selettivi da parte di settori della magistratura, il governo democraticamente eletto è stato ancora una volta privato dei propri poteri e il premier rimpiazzato da un altro vicino ai generali. La Thailandia, quindi, sa di avere talmente tanti scheletri nell’armadio che, più la situazione in Birmania si estremizza, più l’attenzione della comunità è distolta dai propri problemi interni.

E l’Occidente che fa?

Se osserviamo l’evoluzione politica della Thailandia degli ultimi anni, notiamo la scarsa attenzione che l’Occidente le ha sempre riservato, in maniera non continuativa. Gli asiatici, non a caso, vedendo queste esitazioni pensano che usi la democrazia in maniera selettiva. C’è un venir meno della credibilità ideale dell’Occidente rispetto ad alcuni valori – in teoria – abbracciati da tutto il mondo, come la libertà e la democrazia.

Che ruolo gioca la Cina nella questione Birmana?

La Cina, imputato numero uno, specie per i giornali italiani, in realtà si pose il problema di un’evoluzione politica. Bisogna tornare agli anni Sessanta, quando Mao Tze Tung inviò, per aizzare la rivolta comunista, circa 100mila “volontari” in nord-Birmania, tra gli Wa, un’etnia simile ai cinesi dello Yunnan del nord. Assieme fondarono il partito comunista birmano che combattè il governo socialista-buddista. Alla fine degli anni Settanta, tuttavia, abbandonati a se stessi, senza il sostegno di Pechino, questi volontari si dispersero, molti di loro passarono al traffico di droga.
La Cina era interessata a trovare anzitutto una soluzione per il nord -Birmania fuori controllo. E in questa ricerca, nella seconda metà anni Novanta, sostenne un generale, l’ex capo dei servizi di intelligence, il più riformista di tutti, Khin Nyunt. Il generale divenne anche primo ministro, tra il 2003 e il 2004, ma fu deposto dall’ennesimo colpo di stato. Questo ha inasprito decisamente i rapporti tra Rangoon e Pechino. I generali, dal canto loro, temono nuovi tentativi di interferenza.

Perché i media e la comunità internazionale appaiono, in genere, poco interessati alla questione birmana?

Tutto il mondo è preso da tante e tali priorità che la Birmania è lasciata nel dimenticatoio. Inoltre non ha armi nucleari né petrolio e non rappresenta una minaccia strategica. Credo, infine, che ormai siamo assuefatti a un “consumismo politico” da rock-star tale per cui interessa e colpisce solo ciò che è immediatamente suggestivo, ma poi si dimentica.
La stessa Suu Kyi – che ovviamente rappresenta oggettivamente grandi valori – è conosciuta solo perché è una sorta di “etichetta” di questo consumismo. Tutti infatti sanno chi è, ma nessuno ha idea di quello che accade in Birmania.

possibile porre fine alla dittatura birmana? Che ruolo dovrebbe giocare in questo la Comunità Internazionale?

Abbattere una dittatura è molto difficile. La moda del regime change va presa con le pinze. Più che a un intervento “chirurgico” dovremmo pensare a un intervento “farmacologico”, il che implica mettere da parte la logica politico-consumistica e concentrarsi sulla questione con estrema attenzione mentale e intellettuale.
Vuol dire cambiare le proprie prospettive e ricordare che la politica ha tempi ben diversi e più lunghi delle sciocchezze estive per le quali ci stracciamo le vesti. E a questo punto aprire un tavolo con i Paesi interessati. Ma L’Occidente dovrebbe avere un’idea chiara di sé, una volontà politica trasparente e sapere cosa vuole realmente per il sud est asiatico. Del resto il regime birmano è più sfaccettato e meno coriaceo di quello della Corea del Nord e potrebbero esistere margini di intervento maggiore.