La vigilia delle prime elezioni libere in Afghanistan è funestata da attentati, bombe e minacce ai civili, che i Talebani, ormai saldatisi in maniera forte con al-Qaeda, continuano a rivolgere per disturbare il voto. Non poteva che essere così, d’altronde, in un Paese che viaggia sempre di più sull’orlo del fallimento, con il rischio che a farne le spese sia anche il vicino Pakistan atomico.
Ma da queste elezioni occorre cogliere gli aspetti positivi. Esse sono senz’altro utili come esercizio di democrazia. Soprattutto ci forniranno indicazioni preziose sul proseguo della difficile attività di stabilizzazione del Paese e sull’atteggiamento dei governi occidentali di fronte alla minaccia costituita dalla rete del terrorismo internazionale.
Partiamo dal fronte interno afghano e dalle prospettive possibili di queste elezioni. È plausibile pensare ad una riconferma del Presidente uscente Hamid Karzai, dato in vantaggio praticamente da tutti i sondaggi. In questi anni, Karzai ha fatto poco e male: soprattutto è riuscito nell’impresa di scontentare praticamente tutte le diverse anime tribali del Paese.
La corruzione dilagante, una doppiezza di fondo nel rapporto con i Talebani e una gestione opaca della pubblica amministrazione hanno avuto l’effetto di cementare il sentimento anti-occidentale, spingendo di fatto molti giovani tra le fila dei Talebani e richiamando in territorio afghano combattenti di al-Qaeda provenienti dalle regioni limitrofe. Purtuttavia, Karzai appare a tutt’oggi l’unico esponente con una esperienza internazionale in grado, ad esempio, di far affluire aiuti umanitari nel Paese e di dialogare ai massimi livelli della diplomazia e delle gerarchie militari internazionali.
Il suo principale sfidante, l’ex Ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, ha messo a punto un programma parecchio distante da quello di Karzai. Almeno sulla carta, egli ha promesso di smantellare la burocrazia, di combattere la corruzione e di dismettere qualsiasi ambiguità verso i Talebani. Karzai ha più volte sottolineato l’esigenza di portare al tavolo dei negoziati i Talebani moderati. Rispetto a questo punto, Washington non ha ancora sciolto la riserva, anche se non si è dichiarata del tutto indisponibile.
Al Pentagono, infatti, esistono piani volti a replicare in centro Asia cio’ che il Generale Petraeus ha già fatto in Iraq: un coinvolgimento dei gruppi combattenti moderati, assurti poi al rango di forze di sicurezza parallele a quelle statali. La differenza, però, con l’Iraq è che in Afghanistan anche le tribù più moderate sembrano ormai definitivamente lontane da qualsiasi prospettiva di negoziato con il potere centrale.
La vigilia del voto è animata anche dal dibattito interno alle Cancellerie occidentali. Dopo il clamore suscitato dalle dichiarazioni di Obama e Holbrooke, suo rappresentante speciale per la regione, sulla ricerca di una exit strategy dal Paese (dichiarazioni chiarite nel senso della ricerca prospettica di una strategia di lungo termine), si fa ora il conto nefasto delle vittime. Quelle americane, senza dubbio. Ma anche quelle inglesi, che hanno superato in numero i caduti di Sua Maestà in Iraq.
Per adesso, l’opinione pubblica americana continua a sostenere lo sforzo militare in Afghanistan; ma questo consenso non durerà per sempre. Soprattutto, esso cesserà se non si arriverà presto a definire i termini e le condizioni del disimpegno. Un fatto politico di questi giorni è particolarmente significativo: la Commissione Difesa del Senato ha di fatto sospeso l’applicazione della raccomandazione del Pentagono, che suggeriva di inserire nella lista nera dei principali ricercati afghani anche una cinquantina di produttori di oppio, ritenuti ovviamente tra i principali finanziatori della guerriglia talebana. Il Senato non ha contestato il merito del provvedimento, bensì il fatto che esso rappresenti indiscutibilmente un motivo di maggiore impegno per l’America sul campo e non la prospettiva di una uscita dal Paese.
In tale contesto, l’Europa è alle prese con altrettanti dibattiti, benché dai toni molto più vaghi e, quindi, meno consapevoli. Si condivide in linea di principio il richiamo degli Usa e della Nato ad un maggiore impegno militare, ma per adesso non si vedono gesti concreti. Alla fine, sarà Washington a sobbarcarsi il peso principale, accrescendo il numero delle truppe speciali.
In Italia, poi, i toni hanno qualcosa di paradossale. Discutere di regole di ingaggio o di nuovi codici di guerra in tempo di pace significa solo mettere a rischio la vita dei nostri soldati. È vero che l’immobilismo sarebbe addirittura peggio. Ma il tempo dei dibattiti non è questo. Occorre confermare nei fatti l’impegno italiano per questa missione internazionale, dalla quale dipende la stabilità di quell’area e i destini della lotta al terrorismo internazionale. Poi verrà eventualmente il tempo delle discussioni. Per adesso siamo in guerra e i mezzi con la quale la stiamo sostenendo sono del tutto insufficienti.