Sui giornali prevalgono le foto di un Obama che, in maniche di camicia, si asciuga questa volta il sudore della fronte. È preoccupato, il presidente, e ha motivo di esserlo, perché la sua riforma della sanità è sotto il fuoco incrociato. Degli oppositori repubblicani, ma anche dei democratici che non condividono del tutto il suo progetto di estendere a spese dello stato a tutti i cittadini il diritto all’assistenza sanitaria. Così, nel paese che spende in sanità il 17,5% del Pil, il presidente ha lanciato l’ipotesi che a garantire le polizze assicurative al posto dello stato siano enti non profit.
Valentino, il presidente Obama ha ipotizzato di dare al non profit il compito di garantire le polizze assicurative al posto del pubblico. Già si parla di un dietrofront rispetto al piano originale.
In realtà Obama ha un progetto chiaro e quel che vuole l’ha detto fin dall’inizio: dare la copertura sanitaria ai 46 milioni di americani che ne sono sprovvisti. Il problema è come farlo. Fino a oggi la strada irrinunciabile prevedeva che accanto alle assicurazioni private ci fosse un’opzione pubblica: lo stato cioè avrebbe garantito l’assistenza a chi non aveva la possibilità di permettersi un’assicurazione privata.
Il che ha provocato e provoca tuttora resistenze enormi.
Sì: gli oppositori le stanno tentando tutte, con speculazioni ad arte e con accuse di voler fare una sanità socialista, o perfino con missioni di “guastatori” mandati negli incontri pubblici dei deputati democratici per fare azione di disturbo. Ora Obama ha ripreso l’iniziativa: preso atto che l’opzione pubblica non ha i numeri per passare in Congresso e in parlamento, ha lanciato un’“opzione non profit”, basata su cooperative che cominciano con denaro pubblico ma che poi vengono gestite autonomamente dai soci.
Fare leva sul privato sociale può garantire maggiori probabilità di successo?
È più facile che sia accettato dalla maggior parte dei cittadini, perché entra in gioco la responsabilità diretta del cittadino e questo agli americani va molto a genio. Si evita l’immagine di uno stato che gestisce in modo diretto, anche se l’opzione non profit richiede naturalmente il denaro pubblico. Questa soluzione potrebbe permettere a Obama di riunificare i democratici, e di allargare il consenso ai repubblicani centristi. Gli basterebbero i voti democratici, ma per fare una riforma di questa portata incrementare il consenso politico è fondamentale.
È la prima “sconfitta” politica del presidente?
L’ultima mossa è sicuramente una frenata, ma anche un’abile formula di compromesso che permetterebbe di fare la riforma senza negarne i principi: più scelta, più competizione sul mercato delle assicurazioni e, soprattutto, l’estensione della copertura. È questa che ha spinto Barack Obama a fare della riforma sanitaria il suo cavallo di battaglia, ma anche la sfida più rischiosa.
Questa riforma sembra comunque molto impopolare. Gli americani la vogliono o no?
L’impopolarità della riforma ha radici profonde. Chiediamo agli americani se pensano che sia necessaria una copertura sanitaria per tutti: la maggioranza dirà di sì. Se poi chiedessimo: volete che sia lo stato ad occuparsi di questo? La maggioranza sarebbe contraria. È una contraddizione? Il punto è che gli americani hanno una diffidenza di fondo per il ruolo dello stato. Appartiene al dna di un paese nato intorno ad una rivolta fiscale. D’altra parte non è nemmeno vero che lo stato si disinteressi della sanità: il Medicare dà l’assistenza pubblica a tutti i cittadini a partire dai 65 anni.
Obama ha commesso degli errori?
Uno è stato senz’altro quello di non presentare un proprio piano, ma di far circolare delle proposte perché fosse il Congresso a coagulare il consenso. Obama ha voluto evitare di fare come Bill Clinton nel ’92, che preparò un piano dettagliato e lo presentò al Congresso, ma il Congresso lo stracciò. Per evitare di apparire come il presidente che impone la sua riforma, ha scelto di far emergere un consenso al Congresso. Ma non ha funzionato. In molti hanno puntato il dito su questo errore strategico.
Si decide ora il destino della presidenza?
Non è il momento cruciale, perché il dibattito è ancora lungo; però sulla riforma sanitaria si decide il futuro della presidenza Obama, non c’è dubbio. Ma se il presidente riesce a fare la riforma, anche in questa versione meno “radicale”, e riesce a far passare il principio che tutti gli americani hanno diritto alla copertura, compie una vera e propria rivoluzione. Ha un anno di tempo, da qui alle elezioni di mid term, per presentarsi con una riforma sanitaria fatta, per consolidare i dati positivi che si cominciano ad intravedere nell’andamento dell’economia, e per dare effetto ad una exit strategy in Afghanistan.
Ha fatto scalpore il calo di popolarità del presidente. C’è un Obama carismatico che piace agli americani più delle sue idee?
Sì, questo è vero, ma solo in parte. Occorre ricordare che è stato eletto con una maggioranza composita. La sua vittoria ha catalizzato una proiezione enorme di aspettative di cambiamento: la sinistra per esempio lo ha votato convinta che avrebbe subito rovesciato tutte le politiche di Bush. Lo sta facendo, ma con equilibrio. Prendiamo Guantanamo: Obama sa benissimo che va chiusa, ma non al prezzo di mettere in giro terroristi che nel giorno in cui usciranno dicono di voler fare esattamente quello che avrebbero fatto prima. Obama ha entusiasmato milioni di elettori, ma ricordiamo che in lui prevale sempre il pragmatismo.