Domani l’Afghanistan affronterà le elezioni per scegliere il nuovo presidente e rinnovare i consigli provinciali, ma il clima è tutt’altro che tranquillo. Molti degli aventi diritto al voto lamentano di non essersi potuti iscrivere nelle liste, la scarsa presenza di scrutatrici potrebbe creare problemi al voto delle donne, ma, soprattutto, i Talebani minacciano di tagliare le dita a chi verrà trovato con le mani sporche d’inchiostro, segno inequivocabile dell’aver esercitato il diritto di voto.
Luigi Geninazzi, giornalista di Avvenire, che aveva seguito sul campo le elezioni dell’ottobre 2004, ricorda che avvertimenti di questo tipo non mancarono anche in quell’occasione, ma, diversamente da oggi, i Talebani non avevano la forza per dar seguito alle minacce.



Quali sono le maggiori differenze tra queste elezioni e quelle del 2004?

Le dichiarazioni dei Talebani non sono cambiate, ma la situazione generale è molto diversa. All’epoca si registrò una grande partecipazione, un grande entusiasmo e le foto delle code di uomini e donne ai seggi commossero il mondo. Fortunatamente non ci furono attentati a Kabul, sia in campagna elettorale, sia durante le votazioni. Oggi invece i Talebani sono molto più forti e puntano a impedire le elezioni o comunque a scoraggiare la maggior parte della popolazione. La storia ha fatto passi da gigante in questi 5 anni, purtroppo però all’indietro.



Quali responsabilità ha il presidente uscente Karzai, che aveva saputo suscitare grandi speranze sia in Afghanistan sia in Occidente?

Le sue responsabilità sono molto gravi. Dichiara di aver riattivato il commercio e sicuramente alcuni ceti a Kabul e nelle altre grandi città vivono meglio. La corruzione è però dilagante, i fondi per una ricostruzione che non è mai iniziata sono spariti nel nulla e soprattutto la gestione e il mantenimento del potere si sono basati su alleanze con “i signori della guerra” delle varie etnie, come il generale Dostum, un criminale di guerra che in questa tornata porterà in dote il 10% di voti per scongiurare il rischio del ballottaggio. In cambio otterrà un posto importante, come ad esempio la vicepresidenza. Riguardo ai Talebani è stato volutamente ambiguo e ha teso la mano alle loro frange cosiddette “moderate”. In alcune zone dice addirittura di aver raggiunto con loro una tregua, vedremo.
Nonostante il fatto che Karzai non ispiri più grandi speranze sembra comunque destinato a vincere.



Lo scenario rischia quindi di rimanere praticamente lo stesso anche dopo le elezioni?

Questa situazione di stallo rischia solo di aggravarsi. Lo sfidante Abdullah Abdullah, che lo accusa direttamente di corruzione non ha molte speranze di vittoria, può sperare solo in un ballottaggio che però congelerebbe tutto fino a ottobre.
A mio avviso l’Afghanistan torna prepotentemente in cima all’agenda internazionale del governo americano e di quelli europei, non solo perché stiamo parlando di Talebani e di Al Qaeda, ma anche perchè le sue turbolenze sono legate a doppio filo con il Pakistan, l’India, la Cina e la Russia.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti: la Presidenza Obama ha segnato una svolta sull’Afghanistan?

Sicuramente, anche se si tratta di una svolta annunciata. Bush era concentrato sull’impegno in Iraq e metteva in secondo piano l’Afghanistan, che tra l’altro sembrava avviarsi, seppur lentamente, verso una relativa tranquillità. Obama invece ha dimostrato chiaramente di voler vincere su questo fronte: a inizio luglio ha inviato infatti truppe supplementari nel Sud, portando a 100.000 unità le forze internazionali.
La sua strategia è quella dell’intervento via terra, evitando le operazioni aeree che comportano maggiori rischi per i civili, cercando di essere al fianco delle popolazioni, anche se questo costa di più in termine di vittime tra i propri soldati.
È interessante notare che nelle sue ultime dichiarazioni non ha parlato di exit-strategy, proprio perché non è ancora possibile identificare una data di rientro, a differenza dell’Iraq, dove è previsto che le truppe torneranno a casa nel 2011. Obama è stato chiaro: la vittoria “non sarà affatto rapida” e la presenza delle truppe “non è una scelta”, ma una necessità.

Il ruolo dell’Italia è destinato a essere più incisivo?

La nostra presenza lì si basa su un teorema secondo me giusto: l’Afghanistan è la “culla del terrorismo”, l’11 settembre è nato lì e dobbiamo intervenire per la nostra sicurezza.
Il dibattito da noi per ora è stato molto ideologico, quando invece urge molta onestà e chiarezza: è un’operazione di pace, certamente, ma in un contesto di guerra, che è ancora in atto. Non è un’operazione di peacekeeping come fu in Kosovo o in Bosnia per intenderci, è una guerra decisa a livello internazionale, sotto l’egida dell’Onu, per contrastare un’offensiva terroristica globale.  L’obiezione più frequente è che la nostra Costituzione è contro la guerra, ma noi non siamo lì per conquistare,  siamo presenti per ristabilire la pace e servono gli strumenti adeguati.
È chiaro che dopo queste elezioni tornerà prepotente il tema del “cosa fare?” e dovrà iniziare in tutta Europa un dibattito serio. A mio parere, comunque, l’italia dovrà avere un ruolo più impegnativo.