«Giudicare ora, alla vigilia, è impossibile. Per avere una reale percezione di come stanno andando le cose, mai come in questo caso bisognerebbe essere sul campo. Ma credo che le elezioni si svolgeranno più o meno regolarmente». Ne è convinto, l’ex ministro degli esteri Gianni de Michelis, al quale ilsussidiario.net ha chiesto un pronostico.
Si temono brogli e irregolarità. Il loro effetto sarà così pesante?
Non dobbiamo fare l’errore di misurare questa svolta con i criteri coi quali misureremmo una normale tornata elettorale in una democrazia. Queste sono le prime vere elezioni libere che avvengono in quel paese. Detto questo, la situazione sarà diversa se Karzai vincerà al primo turno o se sarà costretto a rinviare al ballottaggio una sua eventuale vittoria, cioè ad ottobre.
In tal caso la faccenda si farebbe assai più complicata.
Sì, perché in due mesi i talebani farebbero di tutto per destabilizzare la situazione. Non che finora non ci abbiano provato, ma potrebbe aprirsi una fase ulteriore di instabilità e incertezza, con esiti incerti. Da questo punto di vista l’interesse dell’Afghanistan, a prescindere dal giudizio dato sui diversi candidati, è che le elezioni si concludano con un risultato secco al primo turno.
C’è chi fa notare l’ambiguità del personaggio Karzai: non sarebbero chiari i suoi rapporti con i talebani ed è investito da molteplici accuse di corruzione.
Ma sono le tipiche enfatizzazioni che vengono da chi fa l’esperto in un’aula universitaria, e giudica la situazione esattamente come giudicherebbe l’andamento, che so, delle elezioni tedesche. Quella dell’Afghanistan è una situazione del tutto sui generis. Non conosco personalmente Karzai, ma a mio parere ha già ottenuto risultati per certi versi straordinari, dovendo costruire il consenso in un paese che ha le condizioni di squilibrio e conflitto che sappiamo, in cui ci sono enormi pressioni, interessi e condizioni ambientali estremamente difficili. A mio parere ha fatto il massimo. Pretendere una “non ambiguità” è fare un discorso totalmente astratto.
E i suoi principali avversari?
Dimostrano esattamente quel che stiamo dicendo. Da un lato c’è Abdullah, cui non si possono rimproverare difetti diversi da quelli di Karzai; dall’altro Ashraf Ghani è un signore di grande valore, economista e innovatore. Sicuramente è molto più vicino all’immagine del politico occidentale, però credo che i risultati dimostreranno che il suo “appeal” sulla realtà concreta dell’Afghanistan è molto limitato.
Oltre che per l’Afghanistan, le elezioni hanno assunto un valore politico cruciale anche per la nuova amministrazione Usa.
In realtà io sono tra quelli che non ritengono che la questione dell’Afghanistan sia davvero centrale per Obama. Penso che i problemi realmente decisivi, per lui, stiano in Israele e in Palestina, si chiamino Iran, e – per motivi diversi – Cina e India. In Afghanistan Obama ha bisogno di guadagnare tempo, naturalmente ha bisogno che le elezioni non siano un fallimento. Credo però che sarebbe per lui molto più importante, dal punto di vista strategico, avere un pieno successo in Iraq: cioè risolvere definitivamente la vera scelta sbagliata di Bush.
Qual è la sua opinione sull’azione e sulle scelte del nostro paese?
Penso che l’Italia faccia bene, come fa bene la Nato, a dividersi il carico per tentare di favorire la non degenerazione dei punti di crisi del mondo, a partire proprio dall’Afghanistan. Sul quale il consenso per il coinvolgimento è stato ampio, in Italia di destra e sinistra e dei maggiori paesi europei. E quindi non possiamo tirarci indietro: costerà delle vite, costerà quello di cui stiamo prendendo atto, che siamo lì non solo per una missione di pace, ma per affrontare problemi che richiedono l’uso della forza sul piano strettamente militare, anche se la ragione è una ragione di pace.
Non a caso Frattini ha escluso che exit strategy voglia dire andarsene in tempi brevi.
Sarebbe sbagliato dal punto di vista razionale. Capisco che corrisponda al sentire soggettivo di molti cittadini, ma quello che rende superiori le democrazie agli altri tipi di regimi è il fatto di esprimere delle classi dirigenti che si permettono di fare delle scelte che sulla base degli istinti di pancia delle opinioni pubbliche non verrebbero mai prese. Dobbiamo mantenere l’impegno assunto fin quando la comunità internazionale non deciderà che il proprio compito è finito. Per fortuna su questo c’è un consenso largamente bipartisan.