Si sono chiusi i seggi e l’Afghanistan ha scelto il presidente. Le elezioni, stando alle testimonianze, si sarebbero svolte regolarmente, e già questo, per il paese sotto la minaccia dei terroristi, è una prima vittoria. Mancano intanto dati certi sull’affluenza. Intanto in Iraq una catena di attentati ha insanguinato la capitale, facendo quasi cento morti e più di cinquecento feriti. Esiste un nesso tra la strage di Baghdad e le prime libere elezioni in un paese che tenta il suo primo, autentico esperimento di democrazia? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali ed editorialista del quotidiano La Stampa.



Quali sono le sue prime impressioni a urne chiuse?

Direi che la prima valutazione non può che essere positiva. Non dimentichiamoci qual era il nemico da battere: i talebani, la paura che non si riuscissero a tenere nemmeno le elezioni, e un’affluenza irrisoria. Questo nemico è stato battuto.

La commissione elettorale governativa indipendente parla di un 50% di affluenza…



Se le cose stanno davvero così, siamo ben al di là della soglia minima di successo ipotizzata alla vigilia. Questo obiettivo è stato ottenuto. Non facciamo, per favore, l’errore di guardare alle elezioni afghane con occhio e criteri occidentali, come se si fosse votato in Danimarca. Era d’altra parte impensabile in un posto come l’Afghanistan di oggi.

Da oggi a quando saranno ufficializzati i risultati, dobbiamo attenderci una ripresa dei tentativi da parte talebana di destabilizzare la situazione?

La violenza tenterà ancora di fare il suo gioco, anche se l’inizio del Ramadan limiterà di fatto la capacità di iniziativa dei gruppi jihadisti. Più destabilizzante sarebbe se la polemica sui risultati dovesse continuare tra i candidati e raggiungere livelli di allarme.



Come valuta il candidato favorito, il presidente Karzai, e la sua politica del compromesso, da molti criticata e accusata di scarsa trasparenza se non di illegalità?

Non dobbiamo dimenticare che quella politica, che molti criticano, è anche il frutto delle scelte americane dopo il 2001 di appoggiare i signori della guerra e di limitare in qualche modo la capacità operativa dello stesso Karzai. Le ragioni della precisa scelta della Cia di non impegno nello state building vanno chieste all’amministrazione Bush. Accusare Karzai di essere sceso a patti, o di essersi circondato di personaggi corrotti, come gli viene rimproverato dagli avversari ma anche da analisti e osservatori, o di fallire, mi sembra abbastanza ingeneroso.

Karzai deve temere un eventuale ballottaggio?

Se si va al ballottaggio, non è affatto detto che Karzai perda. Abdallah è abbastanza popolare, Ghani sarebbe efficace per la sua forza modernizzatrice, anche in chiave anticorruzione, ma il suo gradimento è molto più limitato. Per cui il ballottaggio non lo vedo come un fattore di per sé destabilizzante, o che può realmente impensierire Karzai. Resta il fatto che Karzai è di etnia pashtun e per tanti aspetti i pashtun vedono con sfavore, dal loro punto di vista, l’eccesso di peso di tagiki, uzbeki, azari nel governo.

La strage causata dagli attentati in Iraq è un messaggio diretto all’Afghanistan?

No, è una cosa del tutto diversa. In Iraq si è dissolto il clima positivo legato al tentativo di rimettere in piedi una coalizione nazionale segnata da un minor “patrocinio” da parte degli Stati Uniti.

A seguito della decisione americana di ritirarsi si sono aperte nuove possibilità di colpire l’Iraq e gli insorgenti le hanno sfruttate. Questo è quello che è accaduto.

I fatti di Baghdad porteranno gli Usa a ridefinire una strategia per l’area?

Non credo che gli americani abbiano intenzione di farsi riassorbire dall’Iraq, perché si sono resi conto che la partita decisiva è quella afghana. In Iraq la parte cruciale è quella che spetta al governo, che deve trovare una nuova forza negli equilibri politici. Se sunniti, sciiti e curdi non ritrovano un accordo com’è stato un paio d’anni fa, è chiaro che la manovra dei veri e propri gruppi mafiosi per cercare di alzare il prezzo della collaborazione, o di far saltare il tavolo, viene premiata. Ma sono l’ostinazione e la debolezza del primo ministro che stanno conducendo a questi risultati. È un problema tutto iracheno. Se mai dovessimo vedere le menti di qualcuno, potremmo cercare in Iran.

Esiste il rischio di un ritorno alla guerra civile?

Una ritorno alla guerra civile com’è stata negli anni peggiori, quelli dal 2004 al 2006, è una cosa che vedo difficile. Ormai i sunniti hanno accettato il compromesso, quindi indietro non si torna.

Ancora sull’Afghanistan. Come la situazione post voto metterà alla prova l’alleanza dei paesi occidentali?

In Afghanistan ora partiamo da un successo e il successo va consolidato. Il dato certo è che servono più truppe: mancano 50 mila soldati, secondo le stime prudenziali. Poi servono più soldi – perché in Afghanistan è stata impiegata una quantità di denaro nettamente inferiore a quella che è stata investita a Timor Est, in Bosnia e in Kosovo. E serve, soprattutto, la volontà politica di sopportare uno sforzo prolungato. Senza indulgere alla tentazione di parlare con i talebani, credendo stupidamente di farlo da una cosiddetta “posizione di forza”.

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