Barak Obama ha discusso davanti al Congresso la sua proposta di riforma sanitaria, con la quale vuole dare assistenza universale a tutti gli americani e introdurre più efficienza a fronte degli altissimi costi sostenuti dallo stato. Lavorare alla “riforma impossibile” si è però dimostrato più difficile del previsto e Obama è arrivato davanti alle camere con una serie di problemi aperti di non facile soluzione: il rapporto con le lobby che osteggiano la riforma, il voto contrario degli esponenti democratici eletti nei collegi conservatori, le difficoltà tecniche riguardanti la cosiddetta “opzione pubblica”, cioè la polizza assicurativa del governo. E una popolarità drasticamente in calo. Che sulla riforma Barack Obama si stia giocando il futuro della presidenza è ormai chiaro. Rimane da capire quale sarà il prezzo politico di una riforma che molti americani stentano ancora a capire. All’indomani del discorso al Congresso, ilsussidiario.net ha intervistato Paolo Valentino, corrispondente del Corriere della Sera negli Stati Uniti.
Vi sono elementi di novità nel discorso che Obama ha tenuto al Congresso rispetto a quanto circolato finora?
Elementi di grossa novità non ci sono. Obama ha preso una posizione mediana sui temi più controversi, in particolare la cosiddetta “opzione pubblica”, cioè la polizza assicurativa garantita dal governo. Il presidente ha riconfermato il suo appoggio all’ipotesi, venendo incontro a quello che vorrebbero i democratici, però ha lasciato aperta la porta al compromesso.
È uno degli aspetti più controversi della riforma.
Sì. La riforma nel suo complesso vuole garantire una più ampia scelta alla persona e quindi prezzi più concorrenziali e la possibilità, per chi non si può permettere un’assicurazione privata, di aver comunque la copertura medica. Poiché la copertura finanziaria è il nodo cruciale, Obama propone: se questo è l’obiettivo, possiamo arrivarci anche in modo diverso, cioè non attraverso una gestione diretta da parte del governo dell’opzione pubblica, ma per esempio con la creazione di cooperative non profit che partono con un finanziamento pubblico iniziale e che garantiscono le polizze a prezzi accessibili.
Avrebbero il vantaggio di non essere gestite dal governo.
Infatti. La gestione diretta di qualcosa da parte dello stato non fa parte del Dna della nazione.
Quella delle polizze garantite dal non profit è l’unica alternativa?
Obama ha indicato anche un’altra strada, che non dispiacerebbe neppure a qualche repubblicano: il “trigger”, un meccanismo per cui si dà alle compagnie private un lasso di tempo, due o tre anni, per creare esse stesse polizze a basso costo accessibili a tutti. Se alla scadenza prestabilita le compagnie non fossero state in grado di creare polizze a basso costo, scatterebbe l’opzione pubblica a tempo pieno.
L’ipotesi trigger potrebbe portare ad un’approvazione bipartisan?
Non credo più che ci siano i margini, né numerici né politici, per un’approvazione bipartisan. Quello di cui si sta discutendo è riuscire ad avere tre o quattro voti repubblicani in più. Si parla per esempio del voto della senatrice Olympia Snowe, del Maine, che potrebbe essere un voto in arrivo per i democratici…
Nel complesso quindi i repubblicani non sono disponibili al negoziato.
Questa è la mia impressione, nonostante Obama abbia fatto alcune aperture importanti: per esempio ha ripreso, citandola esplicitamente, un’idea della campagna elettorale di John McCain, quella di creare nella fase di transizione dei pool provvisori per le assicurazioni ad alto rischio nel momento della fase di transizione. Oppure l’altra idea della “tort reform”, cioè la possibilità di perseguire in giudizio i medici che sbagliano. È un tema molto caro ai repubblicani e Obama ha lanciato l’istituzione di commissioni pilota, stato per stato, che si occupano degli errori medici.
Il presidente è riuscito a sciogliere le riserve dei “blue dogs”, i democratici paladini della disciplina fiscale? Era uno dei nodi più delicati.
A mio avviso sì, perché ha dichiarato, applaudito tra i repubblicani, che la riforma non dovrà costare un centesimo. Se dovesse costare un cent – questo il senso del passaggio di Obama – gravando sul deficit di bilancio, i meccanismi previsti dalla legge farebbero scattare dei tagli automatici ad altre spese. Ha incontrato subito il favore dei blue dogs, la cui prima priorità politica è proprio quella di ridurre il deficit federale.
A suo avviso la strategia del presidente ha buone chances di successo?
Credo di sì, perché il primo scopo era quello di ricompattare i democratici e mi pare che questo sia pienamente riuscito. E anche le aperture tattiche ai repubblicani potrebbero sortire qualche effetto. «La mia porta è aperta» ha dichiarato Obama, invitando tutti a presentare proposte serie coerenti con lo spirito della riforma. L’obiettivo rimane quello di far passare la riforma entro novembre con i voti democratici.
Pensa che dopo questo discorso possa esserci un cambiamento nell’atteggiamento degli elettori americani che, secondo i sondaggi finora condotti, sono contrari o quantomeno scettici?
A mio avviso sì, perché quello che è mancato in questi mesi – e Obama stesso ha fatto autocritica – è stata la capacità della Casa Bianca di spiegare in modo dettagliato la riforma. Ecco perché il presidente ha fatto uno sforzo di chiarezza, puntando su un discorso rivolto al paese più che ai membri del Congresso.
E ha citato Ted Kennedy.
In questo è stato abile. Ha citato una lettera che Ted Kennedy ha scritto quando ormai sapeva di avere uno o due mesi di vita, con la preghiera che Obama la rendesse nota solo dopo la sua morte, nella quale Kennedy sostiene che la riforma sanitaria, che lui ha sempre auspicato, è innanzitutto una questione morale. La riforma sarebbe l’occasione cruciale per far vedere che gli americani non sono solo il popolo dell’individualismo e la nazione nata in opposizione ad ogni intervento governativo, ma un popolo compassionevole, “compassionate”, e capace di solidarietà. Una mossa che potrebbe far effetto nella psiche profonda del paese.