Di fronte a un evento di grande impatto emotivo come l’attentato di ieri che ha tolto la vita a sei militari italiani è difficile mantenere la lucidità per un’analisi equilibrata della situazione. Toni Capuozzo, inviato da sempre nei territori di guerra di tutto il mondo ci è però riuscito parlando a ilsussidiario.net delle circostanze in cui questo gesto è maturato e delle possibili conseguenze. E di cosa può significare per i militari italiani impegnati in questa difficilissima missione di pace.
Il suo lavoro di inviato nei teatri di guerra del mondo le ha fatto vivere in passato momenti drammatici simili a ciò che è avvenuto ieri a Kabul. Cosa si prova sul fronte in momenti come questo tra i militari e i giornalisti?
Chi parte conosce i rischi che corre, ma quando una cosa del genere succede a un compagno d’armi, a un commilitone con cui hai condiviso tutto, dal contare i giorni che ti separano da casa, al vedere la partita la sera prima è durissima.
Se esiste un reparto in grado di affrontare la durezza di emozioni come queste è la Folgore, che ha uno spirito combattivo più forte di altri. I ragazzi che sono là sanno che portare a termine il loro mandato sarà il modo migliore per ricordare i colleghi caduti.
Personalmente in Somalia assistetti a una missione precipitata in un caos senza precedenti, a Nassiriya dopo l’attentato che tutti ricordiamo vidi la manifestazione della popolazione locale in solidarietà verso gli italiani. Penso invece che Kabul sia una città che ha visto di tutto e che domani si comporterà come se fosse un giorno qualunque.
Qual è l’obiettivo principale di un’azione di questo tipo: indebolire Karzai e inviare un messaggio interno al Paese o intimidire l’Occidente?
I Talebani stanno portando avanti la loro strategia di attentati già dal periodo elettorale e, come da tradizione afgana, andranno avanti presumibilmente fino a quando non inizierà a nevicare. È un attentato che segna una continuità per loro.
Con un solo rudimentale ma potentissimo attacco gli obiettivi raggiunti sono molteplici: colpire il cuore di Kabul, mandare un segnale alle opinioni pubbliche di tutti i Paesi che partecipano alle missioni Isaf, generare perplessità e richiesta di ritiro delle truppe, mandare un segnale a Karzai e alla popolazione.
Il comunicato di rivendicazione dei Talebani offre qualche elemento in più? È secondo lei un attacco alle forze dell’Isaf o con il preciso scopo di far pressione sull’Italia?
C’è forse un elemento che segnala una novità negativa, il comunicato parlava di 10 vittime, le vittime in realtà sono 6, ma loro sapevano esattamente quanta gente c’era a bordo. Penso che ci sia qualcosa che non va nei servizi di sicurezza afgani che li rende simili a quelli pakistani. Penso che si possa parlare di infiltrazioni nei servizi. A mio parere è difficile invece pensare che sia un attacco diretto contro gli italiani. È accaduto sulla via dell’aeroporto, un po’ un passaggio obbligato, dal quale transitano tutti.
La rielezione di Karzai può fornire per il futuro un minimo supporto alla stabilità del Paese?
Dopo elezioni sulle quali si sono levate così tante ombre è davvero difficile pensare che Karzai posso portare stabilità. Una delle maggiori debolezze dell’Occidente in Afghanistan è il fatto di non aver trovato un interlocutore completamente affidabile, forte e credibile. La sua elezione non rafforza la strategia di costruzione di un Afghanistan che sappia camminare con le sue gambe.
Con lo sconforto e il dolore di questi momenti si fa largo la tesi secondo la quale la democrazia in alcuni Paesi non arriverà mai e che anche le elezioni "alla occidentale" in Afghanistan siano state in qualche modo “calate dall’alto”. Lei cosa ne pensa?
Penso sia difficile parlare di elezioni “calate dall’alto” in un Paese in cui ai contadini che vanno a votare vengono tagliati il naso e le orecchie. La partecipazione si è vista nonostante queste terribili minacce, che sono poi passate ai fatti. È ovvio che stiamo parlando di una società tribale diversa dalla nostra, dove contano il consiglio degli anziani, i capi tribù, i clan familiari, eccetera. Il fatto è che siamo abituati alla nostra democrazia nella quale ci si può persino permettere il lusso di non andare a votare perché si è stanchi. In altri luoghi è un’opportunità unica di esprimersi. Pensiamo alle donne che in alcuni Paesi non possono esprimersi neanche in famiglia, cosa può significare per loro andare a votare?
La nostra missione è sotto bandiere Nato e approvata dall’Onu, secondo lei verrà messa in discussione a livello politico? Gli schieramenti riusciranno secondo lei a discutere e a trovare un’intesa o assisteremo allo scontro?
Mi auguro un dibattito politico serio, non ideologico, e rispettoso del lavoro dei nostri militari. Non è dannoso che si discuta delle strategie. Gli stessi vertici Nato si sono interrogati più volte perchè che ci siano delle incertezza e dei punti di domanda è evidente. Ovvio che il dibattito non deve scadere nella contrapposizione, o addirittura negli slogan come “10,100,1000 Kabul”.
E come reagirà l’opinione pubblica davanti a questa grave ferita?
Siamo un Paese che, fortunatamente, non è abituato a pagare un costo di vite umane. È inevitabile un certo disorientamento dell’opinione pubblica che si può chiedere, con una specie di “egoismo buono”: “perché non tornano tutti a casa?”.
Queste posizioni secondo lei sono influenzate dalle voci secondo le quali la guerra ai Talebani è difficile da vincere, sicuramente in tempi brevi?
È senza dubbio una missione difficile, che in certi momenti sembra davvero una guerra. Ricordiamoci che nessuno ha mai vinto una guerra in Afghanistan contro la volontà degli afgani. Ieri però non si è persa una battaglia campale, abbiamo subito un attentato suicida, possibile a chi ha a disposizione gente pronta a morire e a uccidere, soldi e qualche complicità. Dal punto di vista strettamente militare sono molto più gravi le ombre sollevate intorno alle elezioni e il quadro politico afgano.