Saranno questa mattina, nella basilica di San Paolo fuori le mura, i funerali di stato dei sei parà uccisi nell’attentato di giovedì a Kabul, in Afghanistan. La memoria, privata e pubblica, corre al novembre di sei anni fa, alla più grande strage in un teatro di guerra che il nostro paese abbia subito dalla fine del secondo conflitto mondiale. Non ha dimenticato, Margherita Coletta, la fatica e lo strazio di quella prova. Del dolore per la perdita del marito, il brigadiere Giuseppe Coletta, morto nell’attentato kamikaze contro la base italiana di Nassiriya. C’è il rito delle esequie, l’abbraccio di chi ha provato quel dolore e di coloro che attestano un affetto che non può e non deve mancare. Non è questione di eroismo, di semplice eroismo, dice la signora Coletta. Perché anche quello passa, cancellato dal tempo. Non è quello che si cerca, laggiù. È questione di qualcosa di più profondo. Di «un ideale più alto». L’unico ideale che, dice Margherita, è davvero in grado di dare un senso all’impotenza alla disperazione.
Signora Coletta, sarà ai funerali?
No, non è il momento e non è il caso. L’unica cosa che posso e mi sento di fare è star vicino ai parenti e ai familiari dei caduti. In questi momenti non ci sono parole o intenzioni e men che meno ragionamenti che tengano. C’è solo la preghiera.
Sei militari sono morti in un attacco suicida che ricorda da vicino quello di sei anni fa. Cosa ha provato quando ha saputo?
Ho rivissuto lo stesso dolore e la stessa sofferenza. Anche oggi, come allora, è accaduto qualcosa di terribile. È vero, anche le due circostanze sono state molto simili. Posso capire le mogli, le madri, le figlie. Quello che è accaduto cambierà per sempre la loro vita. Non mi faccia, per favore, aggiungere altro.
Lei a suo tempo ha sposato un militare. Cosa direbbe alla moglie o alla mamma di uno dei soldati che ci hanno rimesso la vita?
Di essere fiera e orgogliosa di lui, in tutta umiltà. Ma vede, non è un eroismo che finisce lì, e basta. Penso che questi ragazzi, che accettano consapevolmente di andare in missioni così rischiose, sono spinti da ideali molto più alti.
Molto più alti rispetto a che cosa?
Rispetto a quello che anche molti dei nostri politici vogliono far credere.
Lei nel 2003 ha perso suo marito, il brigadiere Giuseppe Coletta. Che cosa l’ha aiutata a superare il dolore di quella prova?
Solo la fede in Gesù Cristo. Mi ha aiutato e mi aiuta tutt’ora, oltre a tutto l’affetto dei parenti e degli amici. Ma Gesù, come dico a mia figlia, è l’unico che può aiutarci, perché il dolore che ora ti annienta è lo stesso dolore che Lui ha provato per primo, col suo sacrificio.
Che cosa le è rimasto di quel dolore, a distanza di anni?
Con l’aiuto della fede tutto assume una valenza diversa, si torna ad avere la gioia di vivere. Poi ho la mia bambina da crescere e ho il dovere, come mamma, di essere forte anche per lei. Spesso torno, col pensiero, a tutto il dolore provato, a mio marito, a quelle circostanze. Puoi fare grandi cose, qui o a Kabul o in Iraq, ma tutto ciò che fai, nella vita, prima o poi si perde. Si perde ma noi non moriamo: chi ha fede sa che la morte non è una fine, ma un inizio.
È inevitabile che da cristiano uno si chieda perché: perché è toccato a lei, perché è toccato ai militari che sono morti l’altro giorno. Si è data una risposta?
Lo sa la Provvidenza. Io ho fiducia in Cristo. Io credo fermamente che nostro Signore era accanto a loro, a mio marito quando è morto e ai militari che erano con lui, e lo è stato anche adesso, a Kabul, quando ha chiamato a Sé i nostri ragazzi. E l’unica certezza della mia vita è che Gesù li ha accolti, tutti loro, con le braccia aperte. L’unica cosa da fare è di pregare per tutti i ragazzi che sono rimasti là, perché Dio dia loro la forza di andare avanti e di perseverare per il bene.