Ho apprezzato l’articolo di Gianfranco Amato (apparso su ilsussidiario.net il 15 settembre, 2009) perché solleva una questione molto importante relativa alla professione medica attuale.

Correntemente la vera natura della medicina è a rischio, perché c’è confusione rispetto al concetto di “persona” e perciò il rapporto medico-paziente è troppo spesso ridotto ad un meccanismo, nel caso presentato dall’articolo, un «meccanismo regolamentato dalla legge».



Leggendo questo articolo mi sono chiesta: se fossi stata nella sala parto quando Jayden è nato, cosa avrei fatto?

Lavoro come neonatologa ormai da più di 25 anni, prima in Italia e, negli ultimi 15 anni negli Stati Uniti, ma il prendermi cura dei piccoli prematuri è sempre stato e continua ad essere un dramma, ogni volta. Nello stesso tempo, lavorando con piccoli pazienti tra la vita e la morte, faccio sempre un’esperienza di bellezza, sia che con la rianimazione riesca a salvare la vita, sia che mi debba confrontare con l’estremo limite umano che si chiama morte, perché c’è un significato anche lì.



Se chiedete il mio parere rispetto alla rianimazione dei neonati al limite della possibilità di sopravvivenza, la prima parola che mi viene in mente è la parola dramma. Perché?

Prima di tutto perché in questo campo non ci sono molte certezze “mediche”. La datazione della gravidanza non è mai certa al 100%, poiché c’è sempre un margine d’errore di 2 ± settimane. E anche nel caso fortunato di genitori che sanno con certezza la data del concepimento, la maturazione del bimbo può variare parecchio. A quest’epoca di sviluppo il corpo matura molto velocemente, tanto che ogni giorno avvengono nuove tappe di maturazione, ma, detto questo, non sappiamo con certezza lo stato di maturità di «questo bambino appena nato di fronte a me». Ci sono inoltre differenze di maturazione legate alla razza, allo stato di salute della madre, al trattamento prenatale con steroidi, ecc.



Secondo la conoscenza medica corrente, che si documenta con dati di ricerca clinica e di esperienza, si ritiene che la sopravvivenza prima della 23 settimana è minima, perché i polmoni prematuri non consentono uno scambio dei gas adeguato. Devo anche citare che, avendo a che fare con neonati piccoli e molto fragili, al confine della sopravvivenza, alcuni medici sollevano una questione rispetto a bambini che riescono a sopravvivere, ma a costo della possibilità di handicap severi. Questi stessi medici suggeriscono di non iniziare la rianimazione di questi neonati per «lasciarli morire e prevenire cosi la sopravvivenza di bambini handicappati». Altri medici insistono sulla rianimazione a tutti i costi, a qualunque età gestazionale.

 

Allora, se io fossi stata in sala parto quando Jayden era nato, cosa avrei fatto? Benché sia stata in sala parto molte volte con molti “piccoli Jayden”, credo molto fortemente che ogni volta è diverso perché ogni bambino è diverso. Ogni volta c’è un nuovo dramma da affrontare, e dobbiamo prendere una decisione secondo le nostre conoscenze mediche, rispettando e non manipolando il “destino” del paziente. Poiché la vita è il bene supremo, evidentemente, se c’è possibilità di sopravvivenza, siamo chiamati a rianimare il paziente. D’altra parte, non necessariamente quello che è possibile tecnicamente, è raccomandabile. L’approccio di rianimazione ad ogni costo, anche contro l’evidenza certa di morte imminente, rivela una posizione di aggressività che non riconosce il limite della medicina e, ancora di più, l’esistenza di un “destino della persona” che non può essere determinato né dai genitori, né tantomeno dal medico.

 

Quando la nostra conoscenza medica ci suggerisce che un bimbo è troppo prematuro per farcela, la nostra responsabilità medica non finisce lì. L’espressione «non c’è più nulla che possiamo fare» dovrebbe essere bandita dal campo medico. Piuttosto chiediamoci: come possiamo confortare questo piccolo paziente? I punti chiave della cura diventano: mantenere il bimbo caldo, idratarlo o prendersi cura del dolore, se necessario, ma soprattutto aiutare i genitori o altri membri della famiglia ad accogliere questo bimbo, anche per un periodo di tempo brevissimo.

 

Ho imparato tantissimo dai miei pazienti e probabilmente la lezione migliore è che tutto è dato, non decidiamo noi il giorno della nostra nascita – quanto ce lo insegna un bimbo prematuro! – e neppure quando arriva il nostro ultimo giorno. Perciò, possiamo prenderci cura dei bambini prematuri solo seguendo la realtà. La nostra missione di medici è di “servire” la vita nella direzione che la realtà ci invita a seguire. Non c’è linea-guida o protocollo che possono risparmiarci il dramma di decidere che tipo di cure mediche siamo chiamati a offrire a ciascuno dei nostri pazienti.