Nell’annuncio fatto dai vertici politici e religiosi iraniani sulla presenza conclamata di un secondo reattore nucleare già attivo alle porte della città santa di Qom possiamo riscontrare alcune novità strategiche e alcuni elementi di continuità con il passato recente.
La continuità risiede, per l’appunto, nella volontà iraniana di perseguire un disegno nucleare concreto. Per produrre energia elettrica, costruire la bomba atomica o vendere uranio arricchito all’estero poco importa. O meglio: importa sotto il profilo delle previsioni e delle tutele internazionali dell’Aiea, che tollera un processo di avvicinamento relativo e controllato al nucleare civile, non certo il suo utilizzo per scopi di aggressione militare.
Il tema principale, però, attiene gli obiettivi geopolitici e strategici dell’Iran posto che, sin dagli anni della Guerra Fredda, la bomba atomica è sempre stata uno strumento e non un fine. Con la caduta di Saddam Hussein nel vicino Iraq, la crescita esponenziale del potere wahaabita, che fa capo all’Arabia Saudita, negli anni delle due Presidenze Bush, con il prezzo del barile del petrolio salito alle stelle negli ultimi anni, l’Iran sa di poter giocare questa volta la posta massima al tavolo da poker del bluff nuclerare.
Perché esattamente di un bluff si tratta, visto che nessun Paese dotato di una sola testata atomica sarebbe così folle da utilizzarla. La penalità da pagare sarebbe la scomparsa del Paese stesso dalla carta geografica, senza possibilità di appello. L’Iran è alla ricerca di un pieno riconoscimento dello status di potenza regionale di primo piano, che oggi appartiene a governi quali quello saudita o quello turco. La finestra di opportunità aperta dalla instabilità della regione, dall’Iraq all’Afghanistan, fa si’ che i piani iraniani possano essere disvelati senza un rischio eccessivo. Gli Stati Uniti non scatenerebbero mai, in questo momento, una terza guerra nella regione.
Gli elementi di novità di questa escalation nucleare risiedono nella particolare spavalderia mostrata dalla leadership iraniana. Fino ad oggi, gli annunci erano stati fatti secondo un copione tipico, improntato al “tira e molla”, alla smentita seguita da un proclama demagogico e populista. Oggi gli iraniani ammettono che la centrale di Qom entrerà presto a regime, dichiarano di voler proseguire senza interruzioni sulla strada dell’arricchimento dell’uranio e, addirittura, testano due missili a medio raggio, i letali Shahab-2 e 3, in grado di colpire il territorio di Israele o della Turchia meridionale.
Non va trascurata, nell’analisi di questi toni, la delicata situazione interna iraniana dopo le elezioni presidenziali e i cui risultati sono ancora oggetto di forti contestazioni. In particolare, in questo delicato passaggio politico nel Paese, si sta ridisegnando la mappa del potere e degli interessi interni, con i Pasdaran costretti a cedere potere a nuove strutture centrali di sicurezza, che rispondono direttamente al Presidente Ahmadinejad e con una spaccatura evidente nel clero iraniano.
La ricerca di Teheran per un ruolo di potenza regionale riconosciuto da tutti emerge con nettezza dal disconoscimento del negoziato fallimentare finora condotto dall’Unione Europea in nome e per conto degli Usa. L’Iran vuole parlare direttamente con gli Stati Uniti e con Obama vuole negoziare un riconoscimento che sarebbe storico.
In tal senso, Israele può tirare un sospiro di sollievo, nella misura in cui lo Stato ebraico è solo l’oggetto di attacchi retorici virulenti e odiosi più per compattare il fronte interno che per il desiderio di distruggere un avversario.
Molto più rozzamente, l’Iran vuole tastare il terreno all’indomani dell’annuncio di Obama sulla cancellazione del progetto di scudo spaziale che, nelle intenzioni della precedente Amministrazione Usa, doveva rappresentare un ombrello protettivo contro la minaccia missilistica degli ayatollah.
Il tavolo verde del poker si è riaperto. E questa volta Teheran vuole giocare con il suo avversario diretto. Per legittimare un ruolo che la storia non ha ancora riconosciuto al Paese e per garantirsi la continuità del potere rappresentata da Ahmadinejad e, soprattutto, da chi lo manovra dietro le quinte.