Le polemiche attorno alla vicenda italo-libica chiamano in causa, al di là del giudizio di merito politico, interrogativi sul ruolo che la Libia gioca nello scenario internazionale di sicurezza. Non è un mistero che la difficoltà principale in un’analisi del genere risieda nella natura criptica ed ambigua del leader del Paese, quel Colonnello Gheddafi che celebra in questi giorni il quarantennio di permanenza al potere. Alleato o canaglia? Difficile da definire in maniera così netta. Gheddafi è un leader antico e moderno al contempo, così come il suo paese.



Sotto il profilo prettamente strategico, la rinuncia ad un arsenale di distruzione di massa, che poi si è scoperto essere composto da qualche missile a medio raggio mal funzionante e da un po’ di gas nervino, all’indomani dell’11 settembre ha aperto la strada allo sdoganamento della Libia, fino a poco prima membro di rango della black list dei Paesi canaglia. Oggi le prospettive di crescita libiche sono enormi e il suo ruolo di possibile stabilizzatore regionale è preso in seria considerazione.



Sono almeno tre gli elementi da analizzare in tal senso: il primo rimanda al “Gheddafi antico”, a quello del sogno panafricano e del libretto verde; il secondo al Gheddafi internazionale, moderno, colorato; il terzo alle prospettive interne del Paese. Sotto il primo profilo, il Colonnello non ha mai rinunciato al suo sogno di un Continente africano al riscatto dalla nemesi storica. Lo fa con noi italiani, in modo da mettere agli atti della storia la vendetta del periodo fascista e coloniale; ma lo fa anche spronando gli altri governi locali a reagire all’imperialismo che sottrae risorse e benessere all’Africa. L’attuale presidenza dell’Unione Africana spetta in questi mesi proprio alla Libia e gli effetti si stanno sentendo in maniera nitida.



Sotto il profilo internazionale, pochi Paesi possono oggi fare a meno della Libia. Non, almeno, quei Paesi che hanno una necessità di approvvigionamento energetico e di delocalizzazione delle attività produttive. In questa lista, ovviamente, al primo posto c’è l’Italia. La corsa ad accaparrarsi i contratti energetici più vantaggiosi è partita da un bel pezzo e i petrodollari hanno già rimpinguato le casse del potente fondo sovrano libico (LIA) che generosamente ha fatto shopping tra i prezzi pregiati europei. Fare affari con i dittatori non ha mai scandalizzato nessuno e non ha mai rappresentato un ostacolo.

È anche un Paese, la Libia, dal quale transitano praticamente i principali flussi migratori dalle aree più martoriate del Continente nero, a cominciare dal Corno d’Africa. Lì operano reti criminali che gestiscono, con una macchina organizzativa perfetta, il trasporto di questi schiavi africani, lungo migliaia di chilometri di deserto, prima di salire sui famigerati barconi per tentare la traversata mediterranea.

Il terzo punto attiene la realtà di un Paese ancora fortemente arretrato, con una vasta e diffusa povertà, istituzioni democratiche assenti, una stampa controllata dal regime e una tutela bassissima dei diritti umani e delle libertà civili. Il potere, con ogni probabilità, si tramanderà di padre in figlio e continueranno ad essere appena una decina i clan tribali con maggiore influenza. Questo, in un Paese la cui popolazione cresce a ritmi del 4% circa, rappresenta una bomba ad orologeria.

Quale lezione si può ricavare da questo scenario? Quella di una Libia che potrebbe svolgere un importante ruolo di stabilità regionale, ma che non ha ancora la capacità o la volontà di rinunciare alla retorica per indirizzarsi verso la strada della responsabilità. Non si può, difatti, invocare la concordia ed attaccare lo Stato di Israele come principale mandante delle crisi africane. Non si può utilizzare il rubinetto dell’immigrazione clandestina come una clava per ricattare i dirimpettai; non si può disconoscere lo status di Paese canaglia e celebrare con proclami, coriandoli e lustrini il ritorno in patria di un terrorista, condannato nelle sedi internazionali più autorevoli.