Sembra una navigazione a vista quella intrapresa da Barack Obama sull’Afghanistan. Doveva essere, almeno nei piani originali, la sua guerra. Quella iniziata da Bush e poi da lui dimenticata. E quindi conclusa, vittoriosamente, dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Eppure qualcosa sta andando nel verso sbagliato. Non solo sul terreno dove il 2009 è stato l’anno horribilis per le truppe straniere, americani in testa (182 vittime, di cui 95 solo in luglio e agosto); o sul piano della diplomazia, dove i passi in avanti sul cosiddetto fronte Af-Pak sono fin risibili. Piuttosto l’Afghanistan sta incrinando il fronte interno. Qualche commentatore Usa ha azzardato paragoni con il Vietnam. La guerra nel Sudest asiatico conobbe il tracollo quando l’opinione pubblica Usa cominciò a interrogarsi. E fu un’onda d’urto violenta contro il partito della guerra, democratico o repubblicano.
La situazione è solo parzialmente paragonabile a quanto accade oggi. Eppure qualche elemento di contatto c’è. E questo preoccupa l’Amministrazione. Innanzitutto i sondaggi. Il Washington Post ha diffuso di recente uno studio che rivela come il 51% degli americani sia contrario all’impegno delle truppe Usa a Kabul. Un netto 10 per cento in più rispetto a luglio. Altri istituti di ricerca confermano i risultati, o quantomeno il trend: la guerra in Afghanistan è impopolare e cresce la voglia di ritiro.
Non è facile per Obama districarsi in questa situazione. Ha parlato dal Colorado a metà agosto dell’Afghanistan come “di una guerra necessaria”, fronte principale nel conflitto contro il terrorismo islamico. Cedere l’Afghanistan, è la vulgata comune fra gli analisti Usa, significherebbe rinunciare a sradicare il fondamentalismo violento dal Paese e trasformarlo nuovamente in un santuario del terrore. È una chiave di lettura che comincia a non convincere più tutti. Spencer Ackerman sostiene che al-Qaida può benissimo trovare rifugio nello Yemen, in Somalia, Sudan. La questione è se in Afghanistan gli Stati Uniti abbiano realmente interessi nazionali in gioco. E Ackerman su questo è scettico.
Se gli analisti dibattono e un columnist conservatore di primo piano come George Will sul Washington Post scrive che è tempo di ritirare le truppe di terra e continuare il conflitto solo con la forza aerea e l’intelligence, l’opinione pubblica è spazientita. I sondaggi non premiano Obama e sta montando nella galassia liberal la voglia di scendere in piazza contro la guerra infinita. Azioni facili ai tempi di Bush, meno con Obama alla Casa Bianca. Di lui i progressisti si fidano e non vorrebbero seppellirlo dopo meno di 8 mesi di presidenza, ma temono che focalizzarsi sull’Afghanistan significhi perdere energie (e quattrini) per le riforme sociali tanto auspicate (e sbandierate dallo stesso Obama).
Obama intanto oscilla. I suoi generali in Afghanistan, guidati da Stanley McChrystal, hanno presentato un rapporto nel quale invocano un cambio di strategia e delineano un cammino per portare a termine vittoriosamente la guerra. Ma non chiedono nessun aumento di truppe, pur lasciando aperta l’opzione. Scelta obbligata, “suggerita” dalla Casa Bianca stessa che ha tutto tranne il potere e la forza di cozzare con un Congresso riluttante a staccare assegni in bianco e a mandare soldati in Asia senza una chiara “exit strategy”. Così ancora prima che McChrystal consegnasse il report al Centcom, il Pentagono e il Consiglio di Sicurezza nazionale avevano spiegato pubblicamente che il clima a Capitol Hill non era l’ideale per andare a chiedere rinforzi.
Il partito democratico stesso, quello di Obama, è dilaniato. La maggior parte dei deputati e molti senatori hanno accolto con sollievo il ripudio dell’espressione “guerra al terrorismo”, un simbolo dell’era Bush. Barack Obama usò la frase l’ultima volta il 23 gennaio del 2009. Poi prima il Pentagono e poi il Dipartimento di Stato hanno cancellato dai documenti ufficiali la terminologia coniata subito dopo l’11 settembre.
Curiosamente l’altro giorno Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, ha parlato di “guerra al terrorismo”. Segnale dell’ambiguità di un’Amministrazione che teme la rabbia dei liberal, non aumenta il dispositivo militare ma negli otto mesi al potere ha bombardato le zone di confine fra Pakistan e Afghanistan oltre 35 volte.
Per tentare la quadratura del cerchio, Obama sta seguendo un approccio non dissimile da quello usato da Bush nel 2006. Ovvero individuare dei “benchmark” dei paletti per misurare, con tanto di dati e numeri, i progressi (o gli insuccessi) sul piano militare, civile, della sicurezza, della ricostruzione, della lotta all’oppio. L’ultima versione del progetto (che nella West Wing chiamano Strategic Implementation Plan) approderà a Capitol Hill il 24 settembre. Qualcosa sui contenuti è già trapelato: ad esempio si misurerà la percentuale della popolazione afghana che vive in condizioni di sicurezza.
I “benchmark” possono essere un’arma a doppio taglio: perché se da una parte rendono misurabile il successo, ne certificano pure gli insuccessi eventuali della nuova strategia. Obama si trova quindi nella difficile situazione di dover implementare un nuovo approccio che – per bocca dei generali – non può rinunciare a nuova linfa sul fronte militare. Ma il presidente non può per ora tirare troppo la corda con Capitol Hill. Dove l’ala liberal è forte ed è già parecchio delusa dalla retromarcia brusca del presidente sulla “public option” nella riforma dell’health care.
L’escamotage è quello di razionalizzare le risorse. Il Pentagono ha chiesto ai generali sul campo di tagliare fra le truppe non combattenti. Impresa non facilissima visto che molti “non combat job” sono svolti da contractor. Alcuni ufficiali hanno detto che i posti da tagliare sono fra i 6mila e i 14mila. L’idea è quella comunque di rimpatriare le unità di supporto e di sostituirle con 14mila “trigger pullers”, nel gergo del Pentagono, ovvero soldati da impiegare in azioni di combattimento o nell’addestramento della polizia e delle forze afghane. Questa potrebbe essere l’iniezione di forze fresche in Afghanistan. Non certo quanto sperato (ma non dichiarato nel rapporto) da McChrystal. Forse abbastanza, per Obama, per continuare a danzare sulla corda dell’ambiguità.