Già due anni fa il ministro degli Affari islamici della Malaysia aveva sancito che non si deve usare la parola “Allah” per riferirsi al Dio dei cristiani perché «questo uso può far crescere tensioni e creare confusione fra i musulmani del Paese». A leggere le cronache di questi giorni il ministro è stato facile profeta di se stesso e degli “Affari” che rappresenta. Nello Stato asiatico la questione dell’uso della parola “Allah” è al centro di una antica querelle, nella quale i cristiani (sia cattolici sia protestanti) si sono difesi dicendo che essa era in uso da secoli e che gli stessi islamici l’avevano mutuata dai cristiani, ma anche esponenti di altre confessioni ne avevano reclamato l’utilizzo.
Come altri Paesi la Malaysia è una terra di crescente islamizzazione radicale. C’è una diatriba sul diritto dei non musulmani a essere giudicati da una Corte civile, i partiti islamisti guadagnano consensi, molti luoghi di culto non islamico vengono demoliti, il forum interreligioso è stato costretto più volte a interrompere le attività. Il Rapporto 2008 dell’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” cita anche l’ingerenza della legge islamica “sulle procedure per la sepoltura dei morti”. Ogni anno che passa, le libertà perdono terreno.
Oggi quanti Paesi sono come la Malaysia? Tanti, troppi. I circa tremila cristiani autoctoni delle Maldive, dove centinaia di migliaia di occidentali spendono somme considerevoli tra resort e barriere coralline, possono praticare la loro fede solo in segreto e se ne hanno il coraggio, altrimenti finiscono in prigione o convertiti a forza (all’Islam). Il Wall Street Journal Europe (qualche giornale serio c’è ancora) di venerdì scorso cita l’Arabia Saudita, il Pakistan, l’Irak, l’Iran come i campioni dell’anticristianesimo. Secondo l’organizzazione americana “Open Doors” tra i dieci Paesi che primeggiano nella cupa classifica della persecuzione anticristiana, otto sono musulmani (gli altri due sono residui del comunismo, Nord Corea e Laos).
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L’Egitto delle stragi e degli attacchi ai Copti non è certo un Paese “istituzionalmente” anticristiano, ma il suo tessuto sociale freme di ostilità contro i cristiani. E anche se a volte si può trovare un cristiano nel governo (si ricordi Boutros Ghali, che fu anche segretario dell’Onu), ciò non ha alcun significato in un Paese dove «il 70 per cento dei voti andrebbe ai Fratelli Musulmani, se questi potessero liberamente presentarsi alle elezioni» (parole di un autorevole diplomatico).
D’altronde il ministro saudita dice al suo interlocutore che per aprire “un” luogo di culto cristiano nel Paese ci sono problemi: «sa, è la terra santa del Profeta». Le stesse parole che aveva detto venti anni prima alla stessa persona. In una certa parte del mondo sembra che il tempo non passi e se passa non sembra portare progressi. Non tutti i regimi musulmani ce l’hanno con i cristiani, ma anche dove viene assicurata ufficialmente una certa libertà religiosa, ci pensano le mentalità diffuse nella società a ostacolarne la pratica.
E quando le due realtà (società e regime) si coniugano nella “geometrica potenza” di uno Stato-sharia, ecco la persecuzione legittimata e protetta. Per i cristiani dell’Oriente, Vicino ed Estremo, vivere nel mondo musulmano si fa sempre più difficile. E’un fatto che da questa parte del mondo facciamo molta resistenza a riconoscere e fronteggiare. Non siamo pronti ad una sfida così “nuda” e non vogliamo credere che si tratti davvero di fede cristiana. Ma come, si domanda l’uomo europeo colto, nel 2010 non è anacronistico sacrificare la vita per quel Gesù?