Non c’è più un totem da abbattere, un predecessore cui imputare tutte le colpe. Trecentosessantacinque giorni dopo essere entrato, primo presidente afroamericano degli Stati Uniti alla Casa Bianca, Barack Obama è solo al comando. Responsabile dei successi e dei fallimenti della sua politica. Più si allontana il 2008, più Bush e la sua America non possono essere additati come i “mandanti” dei guai: siano l’immagine appannata degli Usa nel mondo o l’economia, o il deficit federale strabiliante o le due guerre aperte e dal finale nebuloso in Iraq e Afghanistan.



Meno adorato dalla stampa, più criticato dalla sua base liberal e osteggiato apertamente, e talvolta in modo pacchiano e volgare dai conservatori, Obama può tirare un primo bilancio della sua esperienza alla guida dell’unica superpotenza mondiale sulla scena.

Se i sondaggi fossero voti, oggi Obama non riconquisterebbe la presidenza. Perché il tasso di approvazione è inferiore al 50 per cento (si oscilla dal 44 al 49 per cento degli istituti demoscopici più favorevoli). E perché il sogno di unire il Paese, generalmente il buon proposito di ogni inquilino della White House, si è infranto nel giro di poche settimane.



Oggi i conservatori, ma anche i moderati e gli indipendenti che nel novembre del 2008 furono la fortuna del candidato Barack Obama, lo terrebbero lontano dal 1600 di Pennsylvania Avenue. Se nel Massachusetts un repubblicano siederà sullo scranno che per decenni fu di Ted Kennedy e quasi “proprietà degli eredi di Camelot” e comunque color blu democratico, un po’ di responsabilità l’ha pure il presidente. Il suo sogno di cambiamento lo ha portato ben oltre quanto l’America, e non solo quella profonda che vive e respira i valori conservatori sin dalla culla, sia disposta a sopportare.



La riforma della sanità resta il grande progetto, l’azzardo. Obama forse riuscirà a portarla fino in fondo (dipenderà molto dal voto in Massachusetts). La maggioranza degli americani, seppur per ragioni opposte fra liberal e conservatori, la osteggiano. Giustamente il presidente si guarda bene dai sondaggi e tira dritto. Ma la critica che molti gli muovono è che stia percorrendo una strada “non americana”. Insomma riforma troppo europea, che nel gergo Usa significa peso crescente e invadente, dello Stato; spesa pubblica alle stelle e paletti rigidi al mercato.

Malgrado il prodotto rischi di scontentare molti, sarebbe pur tuttavia un passo storico riuscire a riformare il sistema sanitario che oggi brucia milioni di dollari, lascia ai margini 47 milioni di persone e arricchisce solo le compagnie assicurative. Se Obama riuscisse nell’intento sarebbe un successo, una crocetta sull’elenco delle cose da fare.

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Crocetta che invece mancherà alla voce Guantanamo. La promessa di chiudere il super carcere per i terroristi è naufragata. Pur fra mille distinguo e scatti di fantasia per trovare soluzioni accettabili. Processare la mente dell’11 settembre in una corte civile a Manhattan è decisione coraggiosa, ma che fa discutere per le implicazioni giuridiche e soprattutto mediatiche. Mandare oltre 110 detenuti in una prigione dell’Illinois invece ha scontentato tutti, primi fra tutti gli abitanti delle contee limitrofe al penitenziario. Fatto sta che al netto, Obama avrebbe dovuto chiudere il centro di detenzione sull’isola cubana entro domani. Missione fallita.

 

Come fallito è l’accordo sul clima, non solo sul fronte internazionale. Copenaghen ha partorito il proverbiale topolino. In Congresso giace ancora la legge per bloccare le emissioni di CO2. E il meccanismo del cap-and-trade resta al palo. Il Senato per ora non discute la legge.

 

Certo Obama può dire di aver messo al bando la tortura, di aver ripreso a finanziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali (battaglia molto ideologica, ma che a conti fatti è un impegno rispettato), di aver fermato, grazie al pacchetto di stimolo per 787 miliardi di dollari la recessione. Ma anche la sbandierata ripresa è ondivaga. Ancora nel tunnel è l’occupazione: oltre il 10 per cento degli statunitensi è disoccupato.

 

E finora nessuna iniziativa – dai sussidi, al blocco delle rate sui mutui, agli sgravi fiscali per le piccole medie aziende, sino al maxi salvataggio di colossi assicurativi e finanziari oltre che a General Motors – ha contribuito a produrre lavoro. Si dirà, non è certo compito del presidente. Corretto, i cicli economici seguono logiche che non sempre si piegano al volere dei potenti della politica. Ma certamente intervenendo in modo massiccio nel mercato, l’amministrazione Obama sperava in esiti migliori sotto il profilo occupazionale e persino sul volume del Pil.

 

Obama continua a godere di alti consensi fuori dagli Stati Uniti. Eppure la sua politica estera finora non ha prodotto quei cambiamenti sperati. Chi accusava gli Usa di essere essi stessi causa dei loro mali (viste le politiche di Bush) in fondo è stato smentito dai fatti. Tanti i discorsi storici, carichi di retorica e di belle intenzioni. Ma l’apertura al dialogo con l’Islam ha toccato solo i cuori dei moderati. Che saranno pure il 99,9 per cento, ma che poco possono su quell’0,1 per cento che vede l’America (e l’Occidente) con i suoi valori e la sua forza come il nemico da abbattere.

 

In fondo il mancato attentato di Natale dice non solo che l’America è vulnerabile, ma che il restyling di immagine di Obama non ha funzionato. Il dialogo con l’Iran resta sulla carta. Mentre il nucleare dei mullah prosegue a strappi ben decisi. L’America di Obama doveva essere solo il maggior azionista mondiale, non più la potenza unipolare di Bush. Un anno dopo l’America non è quella di Bush, ma nemmeno il maggior azionista. Pesa e conta, ma non ha certamente la forza e lo smalto per guidare ovunque il mondo. Haiti con il suo dramma insegna.

 

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Obama ha voluto mostrare il volto umano della potenza Usa dispiegando mezzi e risorse nell’isola caraibica. Ma il caos per la mancanza di coordinazione e le critiche che mezzo mondo (Francia in testa) hanno indirizzato all’attivismo arrogante e pasticcione di Washington offuscano anche le buone intenzioni di Obama.

 

Resta l’Afghanistan. Tre mesi per decidere un cambio di rotta, una nuova strategia sono tanti. Per qualcuno anche troppi. Bush era istintivo e decisionista. Obama meticoloso, valuta ogni sfumatura prima di decidere. Ordina revisioni e valutazioni di rischio a tutti i dipartimenti. Il rischio è di perdere l’attimo, di consegnare il momento agli altri. Solo il tempo dirà se la strategia afghana è stata quella giusta. Ma certo è sembrata l’ennesima triangolazione in senso clintoniano: accontento sia i militari sia l’ala sinistra del partito: più soldati, ma poche combat team; azioni di controterrorismo ma data fissata (2011) per il ritiro. Troppe variabili. Con un rischio insito: che alla fine Obama anche sull’Afghanistan avrà mantenuto e sconfessato tutte le promesse. Alla faccia del principio di non contraddizione.