La lettera di Fiammetta Cappellini arriva a tarda notte, dopo una giornata densa di fatica e di lavoro. Oggi l’emergenza non è soltanto estrarre quante più persone vive dalle macerie, ma cercare di permettere a coloro che non sono rimasti vittime del sisma una vita più tollerabile. Ecco il racconto dei problemi e delle speranze di queste ultime ore ad Haiti.



19 gennaio 2010, Port au Prince, Haiti

La situazione è sempre molto grave, ma alcuni aspetti della vita, per chi non è rimasto gravemente vittima del sisma, si stanno normalizzando. Ciò significa che anche per noi la vita è un po’ più semplice, anche se il dolore continua. Con ogni persona che si incontra si fa un bilancio, si fa una sorta di appello. E tutti ti dicono chi è rimasto e chi no. Chiedi di amici, parenti, famigliari di questo e di quello, persone con cui hai parlato, vissuto esperienze, lavorato, discusso. Amici, spesso. E si scoprono i vuoti. Possibile che sia successa una cosa così devastante?



Il bilancio delle vittime è sempre più grave. Se il governo confermerà il numero delle vittime nelle fosse comuni, allora le cifre che girano sono esatte.

Si scava sempre meno tra le macerie, perché è sempre meno probabile trovare altri superstiti. Ora gli aiuti si dovrebbero concentrare sui campi.

La situazione all’aeroporto è difficilissima e, anche se potrà sembrare surreale, si vivono situazioni che gli esperti di emergenze conoscono bene. I francesi (istituzioni, Medici senza frontiere e Medecins du monde France) protestano perché pare che gli aiuti in aeroporto siano ormai moltissimi, ma non si possono distribuire. Arrivano carichi in continuazione, ma dove c’è bisogno si riceve pochissimo di ciò che arriva. La polemica monta tra gli americani, che usano tutti gli slot, e gli europei che devono atterrare in Repubblica Dominicana. Come sapete, invece, gli aiuti italiani sono correttamente arrivati e sono stati distribuiti.



I campi informali censiti sono decine e decine, ci avviciniamo al centinaio. Ma, che mi risulti, al momento nessuna tenda e stata distribuita.

Il numero di sfollati è enorme e le soluzioni per gestirli sono difficili da trovare: molte discussioni, posizioni diverse, poche iniziative. Le istituzioni locali spingono per la realizzazione di un’immensa tendopoli, le Nazioni Unite vogliono intervenire senza rendere definitiva la permanenza dei campi.

Si teme un’impasse come con gli uragani del 2008, a seguito dei quali si è parlato molto e fatto poco. O come a Fond Verrettes, al confine con la dominicana, dove dopo l’uragano Mitch del ’98 ancora la situazione è come allora, forse peggiorata dall’uragano del 2003.

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Una grande urgenza che viene dai nostri campi e impegna la sala operativa delle Nazioni Unite è sbloccare la distribuzione del cibo (fino a lunedì hanno coperto tre siti al giorno su quasi 100 esistenti…), dell’acqua potabile e prendere finalmente una decisione sul fare o meno le tendopoli.

Noi abbiamo ritrovato altre persone del nostro staff e così il numero dei nostri collaboratori dispersi è sceso. A questo punto abbiamo la speranza che siano solo da rintracciare e che – prima o poi – li troveremo tutti.

Stiamo “stabilizzando due siti”, cioè due campi sfollati. Uno, con circa 1.200 persone, l’abbiamo diviso in quattro settori e sta prendendo un po’ di parvenza di ordine. Mi sono resa conto di com’è importante un luogo in cui stare, di un po’ di ordine, di punti di riferimento. Specialmente in una situazione così drammatica.

Ora mancano i bagni. Noi non pensiamo mai quanto questi siano segno di civiltà. Ma 1.200 persone senza bagno è ben complicato gestirle. Finora però non era una priorità…

Continuiamo ad accogliere bambini per le attività diurne nel centro dell’altra bidonville, Martissant, zona rossa sulle mappe. Vorrebbero che ne aprissimo un altro e l’abbiamo chiesto ai nostri amici di Cesal, l’ong spagnola con cui collaboriamo da tempo. Vorrebbero che noi facessimo un assessment in altre due città vicine alla capitale colpite dal terremoto. Ironia della sorte, abbiamo già lavorato lì per il recupero di bambini dopo il trauma degli uragani del 2008. Lo faremo di nuovo.

Vorrebbero che al sud, a Les Cayes, dove sono arrivati i primi sfollati decentrati, facessimo un censimento per il ricongiungimento famigliare e il riconoscimento di bambini non accompagnati. Faremo anche questo, con l’aiuto dei nostri colleghi che sono là.  

Siamo al fronte, ma sentiamo molto la vicinanza di tante e tante persone. E la certezza della speranza cresce.

 

PS: ho appena finito di scrivere. È in atto una rivolta al carcere di Les Cayes, vicino alla sede Avsi. Si sono avvertiti spari. La polizia ha chiesto di rimanere al coperto. Io sono in ufficio, sono riuscita a contattare Tito che è nella sede di un’altra ong per una riunione. Rimane lì fino a che non si calma la situazione.

 

 

Fiammetta

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