La lettera di Fiammetta Cappellini da Haiti arriva nella notte: nella desolazione di una città distrutta, piccoli segni di speranza indicano a tutti che la ricostruzione è possibile. Intanto si lavora negli accampamenti, tra bambini vessati dalle malattie e donne in gravidanza.

26 gennaio 2010, Port au Prince, Haiti



In questi ultimi giorni sono successe tante cose, all’apparenza piccole in questa desolazione, tanto che mentre accadono non ti accorgi di quanto siano grandi.
Sabato è arrivato un carico dalla Repubblica Dominicana (picconi, pale, carriole, lenzuola, coperte, ecc.), accompagnato dal nostro collega Edoardo Panunzio, da altri colleghi del Cesal (una Ong spagnola) e diversi amici dominicani e italiani. Incontrarlo è stata una bella emozione: erano giorni che non ci vedevamo, ma, soprattutto, l’ultima volta la città non era stata rasa al suolo. Anche per lui è stato uno shock, ha avuto bisogno di tempo per capire che tutto quel che stava vedendo era vero.



Al campo di Place Fierte le persone sono aumentate: 1.800 contro le 800 che abbiamo contato all’inizio. Ora c’è un comitato di coordinamento.
Un altro bel risultato di questi giorni è stato sistemare le ultime 66 mamme in gravidanza con un materasso sotto la tenda.
L’ultima aggregazione di senzatetto che si è formata a Cité soleil non è ancora un campo, è un assembramento di persone che hanno perso tutto e si mettono insieme per far fronte all’oggi e iniziare a pensare al domani.

A volte è sconfortante guardare sotto le tende. Almeno un bambino per famiglia è malato. Dissenteria, parassitosi, denutrizione. Le mamme lasciano i più piccini ai più grandicelli per fare ore di code e ricevere gli alimenti.
Si fa tanta fatica a incentivare le persone ad aggregarsi nei campi, in modo da organizzarsi, stabilizzarsi, censirsi, poi però arrivano i “grandi distributori” e danno a chiunque, senza regola, anche a chi staziona ai lati delle strade.



Nell’altra area dove abbiamo un presidio c’è una comunità poverissima abbarbicata abusivamente sulla collina quasi totalmente crollata. Lì non esiste un vero e proprio campo, non c’è lo spazio e la gente continua a stare davanti alle proprie case. In quella zona siamo riusciti a distribuire generi di prima necessità a 2.875 persone.
È gente che non aveva niente e ha perso tutto. Aspettano che vengano prese delle decisioni sul destino delle loro ex case. Non possono permettersi di abbandonare le loro macerie, rischiando che nessuno si ricordi di loro. Spero davvero che non sia l’ennesima illusione per questa gente.

Intanto l’esodo continua. Moltissimi affollano i pullman che le autorità hanno organizzato verso le periferie. Tornano alle loro famiglie di origine. A Les Cayes, nel sud, si registrano 9.000 nuovi arrivi, e la cifra continua a crescere.
La vita di tutti i giorni pretenderebbe la normalità, ma per certi aspetti si è complicata. Le banche avrebbero dovuto riaprire giovedì scorso, ma hanno rimandato a domani. Spostarsi nella città richiede ore di viaggio. Le file alle poche pompe di benzina aperte sono interminabili.

Sabato c’è stato il funerale del Vescovo, mons. Miot, che conoscevamo bene, fin dai primi tempi di presenza di AVSI in Haiti. C’era davvero tanta gente. Un sisma che ha mietuto tante vite di tutti i livelli sociali, di tutte le estrazioni, di tutte le età.
Ugualmente trasversale è il moto di popolo che ci sta raggiungendo con calore e concretezza: ragazzi univeristari di l’Aquila e studenti svizzeri, comunità povere messicane, carcerati di Padova, suore di clausura, amici argentini, venezuelani, americani, tedeschi, e tanti brasiliani, che hanno iniziato a conoscere questa nostra Haiti con un legame particolare.

Hanno scelto di sostenere un piccolo gruppo, di 80-100 persone che combattono per (e con) poche migliaia di fratelli. In questa macchina globale, siamo un puntino, ma vicino alle persone tangibilmente dal primo giorno. Non a tutti, ma a quelli che ci sono dati., con cura e attenzione perchè la miseria e la distruzione non abbiano la meglio su di loro.

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