Come c’era da aspettarsi (vedi l’editoriale della settimana scorsa), la continuata ed estesa copertura mediatica dello sventato attacco terroristico del giorno di Natale ha risvegliato gli americani alle serie conseguenze di ciò che è accaduto. Soprattutto, si comincia a chiedere risposte alla domanda: come può succedere una cosa simile otto anni dopo il 9 settembre 2001, con milioni e milioni di dollari spesi nel rafforzamento della sicurezza nei viaggi aerei, per non parlare degli inconvenienti che i passeggeri devono accettare per cercare di evitare ciò che, così facilmente, stava per accadere il giorno di Natale?  



La discussione continua, ma quasi nulla si è detto su come affrontare uno dei più importanti aspetti della minaccia terroristica, vale a dire la dimensione religiosa della lotta.

In un recente articolo su The New York Times si è toccato questo aspetto discutendo il ruolo dei cosiddetti “Internet Imam” come reclutatori per Al Qaeda. Esaminando il comportamento di cinque di questi imam, alcuni senza specifica preparazione teologica, si nota che tutti hanno offerto una interpretazione teologica dell’alienazione dei giovani (e non giovani) potenziali terroristi. “Parlando un inglese fluido, spesso colloquiale – rileva l’articolo – questi imam di internet , dal Medio Oriente alla Gran Bretagna, annunciano con modalità da ‘teleevangelici’ un persuasivo messaggio su fede e obiettivi, e la via da seguire, sia a giovani non ancora coinvolti, sia ai fedeli più devoti pronti al successivo passo, la jihad”.



È importante segnalare che questi carismatici leader religiosi non sono il punto di partenza del reclutamento di potenziali terroristi per Al Qaeda, ma forniscono una base teologica a chi ha già cominciato a radicalizzarsi in conseguenza della propria esperienza di alienazione. La domanda focale è quindi: qual è la causa dell’inizio di questa radicalizzazione e  quale la causa dell’alienazione che porta a questo?

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Il problema non è limitato ai musulmani, perché, come suggerisce il termine “teleevangelici”, ciò accade anche tra i cristiani. Sembra che ciò che accomuna questi individui radicalizzati sia la crescente, potente influenza dell’ideologia della secolarizzazione, che tenta di escludere l’esperienza religiosa da ogni area “sociale, giuridica, culturale, politica ed economica” della vita umana, come descrive Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate.



Probabilmente l’ideologia della secolarizzazione è più forte in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, ma la propensione dei secolaristi americani a utilizzare un linguaggio religioso rende forse la situazione ancor più frustrante per chi è travagliato dalla incapacità di contribuire, con la propria autentica esperienza religiosa, alla formazione della politica comune nella nostra società sempre più multiculturale. Quando costoro cercano di affermare queste “pretese di verità” (per citare ancora Ratzinger) vengono subito accusati di essere dei pericolosi terroristi o degli psicolabili.

In questi giorni ho notato interesse per la famosa ricerca, associata a Hans Küng, di un’“etica universale” che possa unire tutti i popoli del mondo, e mi sembra di capire che le stesse Nazioni Unite vi siano interessate. Il problema è che questo progetto, per ottenere un accordo globale tra credenti e secolaristi, deve mettere da parte proprio quelle pretese che definiscono le tradizioni religiose come una diversa dall’altra. Non è forse proprio questo che richiede l’ideologia della secolarizzazione? È per questo che, nel suo famoso dialogo con l’ateo secolarista Jürgen Habermas, il Cardinal Ratzinger ha definito “un’illusione” questo progetto di “ethos mondiale”.