Lo spettacolo che la nazione cilena ha offerto al mondo in occasione del crollo della miniera di San José è un segno di speranza, Esperanza, come è stato chiamato il campo che ha raccolto i parenti dei minatori sepolti, i loro soccorritori, i tecnici, i giornalisti che hanno seguito le fasi del salvataggio per la lunghezza di settanta giorni.



Quando stamattina si sono viste le immagini del quarto salvato, il boliviano, e il suo abbraccio alla giovane moglie, c’è solo la sorpresa per un atto prevedibile, ma non certo così purificato dalla lunga attesa e dal dolore sofferto. Per una volta la gioia si è espressa in modo composto, famigliare, senza nulla concedere all’esagerato sfogo delle emozioni a cui siamo troppo spesso abituati.



Si può ritenere che la fede, oltre a tutti gli strumenti predisposti dalla saggezza umana, abbia sostenuto in questi lunghi mesi l’equilibrio dei minatori e delle loro famiglie: lo hanno fatto vedere al mondo intero le preghiere e le immagini di chi ha pregato Dio per la propria salvezza e per l’incolumità dei suoi cari.

E ora che quest’incubo sta per raggiungere il suo lieto fine, il sollievo si muta nell’ammirazione per tutti i mezzi che l’intelligenza umana costruisce e usa: una volta di più la tecnica e ancor prima gli studi che l’hanno preparata si rivela come una grande e insostituibile risorsa per il bene. Le capacità dell’uomo sono state adoperate in questo caso per la vita; ma ogni giorno negli ospedali, nei laboratori di ricerca, nelle missioni, anche se non ci si pensa quasi mai, investiti come siamo da una informazione che denuncia più il male che il bene, quante persone, lontane dalle luci dei riflettori, ogni giorno studiano e operano medicando le innumerevoli ferite degli uomini.



Ma ancor più la gioia per questa conclusione buona diventa gratitudine a Dio che tutto regge, che permette il male affinché si muti in bene. In un salmo Davide parla di sé come voluto da Dio ancor prima della nascita: “Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra”.

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La risalita sulla superficie dei minatori è un venire alla luce, una nuova nascita, come di frequente è stata denominata. È più che una metafora, perché reale è l’oscurità nel cuore della terra, reali sono gli occhiali scuri affinché gli occhi non più abituati al giorno non siano offesi, reale è il cunicolo quasi interminabile percorso dalla capsula per riportare i minatori ai loro cari.

 

Una nuova nascita è ciò che occorre a tutti: quando la luce del mattino prepara un’altra giornata, quando un avvenimento rischiara il grigiore di un periodo confuso, quando 33 uomini, provenienti da una profondità difficilmente immaginabile, calpestano il suolo della loro patria e, liberati dall’oppressione, respirano la leggerezza dell’aria.

 

A loro prima di tutto, e anche a noi che ne abbiamo seguito la vicenda, l’augurio di custodire questa gratitudine per l’azione umana, per la natura che non è stata matrigna, per Dio che ci concede di vivere.

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