Uno a uno, a partire dalla notte di martedì, i minatori intrappolati dal 5 agosto a meno 700 metri nella miniera cilena di San José, nel deserto di Atacama, sono stati lentamente riportati allo scoperto. Mentre parliamo con Toni Capuozzo, che è stato sul posto una settimana e offre le sue impressioni, le operazioni sono in corso, seguite in diretta dalle testate di tutto il mondo.
Mario Sepulveda, uno dei minatori, quando lo hanno tirato fuori ha detto: “stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi ed ha vinto Dio, mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che Dio mi avrebbe tirato fuori di là”…
«Non si possono far i conti con questa storia senza imbattersi in una grande manifestazione di fede, di speranza, di convinzione nella gente che la tecnologia e la volontà degli uomini possono fare moltissimo, ma non tutto. E allora, come a San Josè, quello che ti accompagna è la fede. Fin dai gesti più semplici. È impossibile raccontare questa grande storia solo come un’avventura semplicemente umana e di tecnologia, perché dappertutto, nell’accampamento, c’è sempre qualcosa che rimanda alla fede di quegli uomini».
Lei è stato per una settimana nella zona della miniera, che cos’ha visto?
«I minatori si sono fatti mandare di sotto le statue per costruire uno di quegli altarini di cui sono piene le strade del Cile, piccoli santuari li chiamano, ma si tratta solo di qualche figura sacra, di qualche candelina, un ex voto. Troppo spesso pensiamo al cristianesimo in Sudamerica come una caratteristica un po’ folcloristica di quelle terre, ma quello che accade laggiù ribalta tutto questo, lo si vede a colpo d’occhio. Si respira una fede grande, sia sopra la terra che sotto. Forse anche per questo, tra tutte le reti che sono sul posto, non ho visto tv del mondo islamico».
Qual era il clima sul posto, alla vigilia delle operazioni di recupero?
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«Comprensibilmente cambiato rispetto ai primi diciassette giorni, in cui non si sapeva se quegli uomini erano vivi o morti. C’era allora la volontà palpabile di non arrendersi al fatto che fossero scomparsi, inghiottiti dalla terra. Fino al 24 agosto, quando si è aperto un canale di comunicazione e quel messaggio, “estamos bien en el refugio, los 33” è stato il giro di boa di tutta questa storia».
Da allora è cominciato un viavai di lettere, cibo, medicine, audio e video…
«Ogni metro guadagnato dalla macchina è stato segnato da cambi di stati d’animo. Adesso c’è una grande gioia, ma mista all’apprensione delle famiglie di quelli che sono ancora sotto, la paura che ci possa essere un qualsiasi imprevisto a guastare la festa. La realtà è che fino a quando l’ultimo non sarà fuori, non si potrà dire che questa storia è finita».
Ancora quel minatore, una volta fuori, ha chiesto che lui e i suoi non venissero trattati come “artisti ma come lavoratori, come minatori”.
«È il presentimento che aver salva la vita li mette di fronte a un cambiamento che potrebbe essere traumatico: le loro interviste valgono un sacco di soldi, ci sarà un libro collettivo, sulla loro storia saranno scritti non so quanti libri, si preparano documentari. Sono tante le cose che cambiano la vita di prima: Bobby Charlton per esempio, che aveva un papà minatore, li ha invitati a vedere la prima partita del Manchester United… mi sbaglierò, ma queste sono persone particolari: solide, forti, concrete come il lavoro che fanno. Il fatto che uno abbia detto subito così, fa capire che vogliono restare coi piedi per terra».
Nella sua vita di cronista ha mai visto qualcosa di simile?
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«Credo che questa sia una delle storie più belle che mi sia capitato di raccontare. Ci sono dentro tante cose: la tecnologia a servizio dell’uomo, la volontà degli uomini, l’orgoglio nazionale, le grandi idee, la passione, la fede. E un lieto fine. Di questo c’era un intimo, grande bisogno. Qui in Italia dobbiamo raccontare un dramma come quello di Sarah Scazzi, dei raptus di violenza a Roma o Milano, della guerriglia serba al Marassi. C’è sete di buone notizie. Non parlo delle notizie frivole, le cosiddette soft news, ma di un dramma che si volge in buona notizia. È quello che si aspetta dalla vita».
Cosa rappresenta per il Cile questa vicenda che ha tenuto il mondo col fiato sospeso?
«Vuol dire moltissimo. Non solo trova 33 eroi nazionali, ma uomini simbolo che hanno le qualità meno apprezzate: lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, la sobrietà. Un pugno di eroi del sottosuolo, di “proletari”che incarnano quei valori e smentiscono i soliti modi di guardare all’America latina come un posto di confusione e di colore. È una storia che fa piazza pulita di tanti pregiudizi. Ci pensavo mentre guardavo, là su una remota collina nel deserto di un continente che si sa essere così antimperialista, sventolare una bandiera a stelle e strisce. La perforatrice viene dalla Pennsylvania».